C’è una fata fatta apposta per la nostra favola. Dobbiamo a lei se il Racconto parla parole umane, a lei che del Racconto Umano è la porta che dà su tutti i «c’era una volta» di verità e inganni.
La porta di Dikê, la chiama Parmenide: di colei che apre il «dire» umano, di colei che strappa la voce dei cuccioli della nostra specie al grido animale per indurlo alla Favella Umana. E a tutte le Favole di cui è capace.
Se ne sta appostata su uno scoglio in mezzo al mare, e attende al varco i marinai. Oppure, come Afrodite, è la schiuma che il mare «restituisce» a chi – come i Deva e gli Asura – lo agita e lo cogita, ma senza sapere se quella schiuma è tutto o è niente.
La schiuma è «quella cosa là», la Smorfiosa.
E una volta che fa le smorfie, una volta che «fa» … a chi nuda la vede, lei porge una coppa d’acqua salata; a chi invece vestita la trova – dice il Racconto – a chi la veste della sua propria voce, a lui soltanto, lei offre la sua pozione magica.
E allora, a chi se la beve, «quella cosa là» fa le magie in bocca: fa il mana, fa il wakan, fa il manitù, fa l’orenda della sua lingua. Chiamalo come vuoi: fa la Nota dominante, pur essendo l’Ignota sottostante a tutte le sue parole.
Quelli che una volta Akula la danzarono, quelli che l’Emergente, la Venere Anadyomene, una volta sulla cresta dell’onda la ballarono, si sentirono levati in volo dallo slancio della Natura stessa a venire in superficie, a farsi sempre più superficiale – quasi a voler coprire le tracce di un suo vecchio crimine.
Bella e terribile, la fata è sempre fatale.
Se no, che fata è?

La «parola retta», la parola che non si fa dirottare dalla «nudità» della fata, la parola che da tutt’e sette i suoi veli turchini è ancora capace di estrarre una favola – la parola che non si lascia pietrificare in una idolatria della bellezza, la parola che non indulge all’appagamento degli occhi, essa sola – dicono i Deva – conserva la sua fluidità, essa sola la capacità di trascorrere e insieme discorrere del fiume in cui fluisce.
La schiuma del suo dono, è la criniera delle onde. Le onde ci cavalcano da che fummo bambini. Le onde ci specchiano e ci ammirano – dicono, dal canto loro, gli Asura. Dicono che «quella cosa là» non ha bisogno di essere conosciuta, per essere parlata. Che non è «retta», ma ovunque curva perché necessaria. Necessaria, Ananke, lo dice la parola, è la «pietra angolare». È l’Angolo a cui si produce il Miraggio dei nostri occhi.
Deva e Asura non lo sanno. Disputeranno in eterno la loro controversia. Gli uni verso gli altri, gli uni agli altri avversi: ostilità e alleanze sono necessarie alla loro Memoria Condivisa.
Ma se scavassimo sotto tutte le memorie «storiche», sotto tutte le guerre e tutte le paci, se anche dovessimo scoprire che là sotto non vi riposa nessuna Struttura, se anche ci fosse un Vuoto – sarebbe soltanto un vuoto capace di svuotarsi ancora, un Vuoto, se così si può dire, inesauribile, un Vuoto che non ha mai cessato di sperperarsi, di crescere e di moltiplicarsi.
La Fata non aggiunge niente alla voce dei bambini. La Fata la svuota di miriadi di suoni possibili, la svuota del suo tesoro naturale – troppo vasto per essere goduto. Per essere «umanamente» goduto, è necessario che la Fata lo diminuisca. Le basta una smorfia, e il gioco è fatto.
Quella sua smorfia … è la pietra d’angolo, il fondamento infondato.
È wakan, è orenda, è mana – Metafora troppo potente, per non dover essere tagliata a misura della voce umana.
Sullo scoglio siede una strega. Dice: no, è una fata! Dice che è una sirena ammaliatrice. Ma che differenza fa, se a suscitarle è sempre il mare?
Tutte dal mare vengono. Sono le figlie dell’Oceano rimestato da tensioni antagoniste, figlie di un «continuo» percorso da vibrazioni opposte, animato da oscillazioni bipolari.
Sono le figlie delle frequenze sonore – sono però immagini. Immagini che schiumano sopra le onde: ambigue, ibride, non del tutto umane – esse spuntano dalle profondità dei dialetti animali. Sono per così dire «umane» solo dalla cintola in su.

Sono le sette meraviglie del Racconto Umano – le sette sapienze che danzano davanti agli occhi libidinosi di re Erode finché un musico non le mette a sedere sul pentagramma a cui è stato battezzato nelle acque del Giordano.
Sono le «figlie dell’uomo» che fecero impazzire gli angeli e li istigarono a ribellarsi.
Sono le urì dei paradisi d’Oriente.
Ora siedono su un trono di perle, ora invece su una conchiglia viaggiano come Afrodite: eccole apparire a noi bambini – a noi, piccoli burattini di legno parlante, ecco venire incontro le fate che ci chiamano alla favola in cui diventare uomini. Che ci chiamano a parlare una lingua umana: quella lingua di cui la Fata Turchina è datrice a ogni suo Pinocchio.
Scogli perle e conchiglie sono «pietre» che devono però essere ancora sciolte. Sono «ossa» che devono ancora diventare strumenti musicali. Sono «minerali» grezzi che vanno lavorati.
Ora et labora! Parla! E con la parola «lavora» l’immagine pietrificata finché non l’avrai disciolta – finché non l’avrai resa trasparente, sì che non più immagini, ma voci tu giunga a vedere! Affinché tu giunga a vedere le voci di cui esse sono immagini – affinché tu riconosca la materia prima, l’ouverture della colonna sonora della tua immaginazione.
Scogli perle e conchiglie appartengono al mare, ma dal mare vengono alla luce. Dagli abissi chi li ha fatti emergere? – chi se non una tensione sottomarina? E una volta emersi, è il vento che se ne serve per musicare le sue voci. E ai marinai che al vento domandano di soffiare nelle vele delle loro imbarcazioni, il vento si compiace di cantare il triste annuncio della morte di Pan.
Il vento canta la sua nostalgia di Paradiso, la sua voglia di tornare a casa mentre tuttavia spinge la barca sempre più lontana dalla sua origine e provenienza.
Il vento è triste perché Saturno, il Satiro sazio, è stato detronizzato, evirato, esiliato, messo a tacere. Nuovi dèi hanno preso il suo posto, nuovi editti hanno bandito la sua lingua analfabetica.