La fanciulla che il viandante incontra sulla via che porta all’altro mondo, è nota al Racconto con svariati nomi: Nausica, Calipso, Siduri, Inanna, Credè, Daênâ, Rán e perfino santa Gertrude. La sua «casa» è ubicata ora all’«ombelico del mondo», ora invece «sulla riva del mare» (in entrambi i casi: dalle parti dello Scorpione celeste; qualcuno la identifica con Antares, la sua stella più luminosa).
Là per sette lunghi anni Odisseo fu tenuto nascosto nelle sue braccia. Sette cieli gli costò quell’abbraccio. Giù di sette cieli precipitò dal suo rango Colui che aveva espugnato Troia.
Sulla via che doveva portarlo «a casa» incontrò la Seduttrice.
Incontrò l’immagine, incontrò il suo stesso istinto – incontrò la voglia di annientarsi, di scordarsi di se stesso. Incontrò la voglia di abbandonarsi – di lasciarsi essere così com’era: un pezzo di Natura orfano di scienza, un puro selvatico «istinto». Assai poco eroico, ma in compenso erotico al punto di lasciarsi prendere nel gioco della Seduzione.
L’Immagine seduce. Bellezza seduce, ma – sta’ attento!, dice Plotino – sta’ attento al Lupo!
Chi può, vada [pure giù di sette cieli] e segua [la Bellezza] dentro Se Stesso, abbandonando la vista degli occhi esteriori e senza farsi sedurre più dallo splendore dei corpi. È necessario infatti che chi vede la bellezza dei corpi non si precipiti verso di loro, ma avendo compreso che sono immagini, tracce ed ombre, si affretti verso ciò di cui essi sono immagini.
(Plotino, Enneadi, 1: 6.8)
Ma come risalire [dalle immagini] alla Luce [che è la loro Matrice]?
Come, se ogni immagine offusca l’Immaginatrice, né più né meno di come la Madonna è criptata nel sorriso di Beatrice: oscurata dal volto in cui più brilla la sua luce?
Plotino s’affretta a rispondere: «allo stesso modo di Ulisse, di cui si narra che sfuggì alla maga Circe e a Calipso, dimostrando, mi pare, che non desiderava rimanere, pur provando piacere con gli occhi ed essendo in compagnia di ogni sorta di bellezza sensibile».
(Plotino, Enneadi, 1: 6.8)
Dicono che Siduri ha aperto una locanda sulla riva della Via Lattea. A tutti i viandanti diretti a Ogigia o all’isola di Utnapištim il Lontano, dispensa liquori inebrianti. Dove credi di andare? – domanda a ciascuno di loro. – Resta qui, ti farò assaggiare il frutto proibito!
La sua è la Stazione delle Immagini. Così almeno raccontano i racconti più antichi. Raccontano che, dentro le ampolle che Astolfo vide fumare in un bar sulla luna, fluttuavano immagini e fantasmi, ombre e riflessi policromi di una Luce sfuggita alla tirannia della Notte.
Quella Luce, dicono, s’è spinta fino a immaginare il Mondo. Fino a partorirlo. Quella Luce è Venere Genitrice. È Natura: sta sempre sul punto di nascere a nuova vita. Perciò Aristotele dice: «La physis che nasce a ogni nascita, è la via che porta alla physis [che la riporta, punto e a capo, alla sua naturale incoscienza di se stessa]» (Fisica, 193: b12).
Non c’è che la Via dove la physis va e viene, nell’immaginazione dei suoi viandanti. Tutti, all’inizio del viaggio, similmente narrano d’essere stati nutriti e rifocillati là, «alla Locanda» della Bella Taverniera.
Ci vuole poco a rintracciarla nei nostri cieli.
È una stella sul bordo della Via lattea. I poeti che la riconobbero, ne furono incantati e come Odisseo si persero ciascuno nei filtri della sua Calipso. Sette anni avvolti nel suo seno dovettero «stazionare» prima di poter gioire d’un suo bacio. Alcuni, si racconta, trovarono infine l’elisir di eterna demenza e di meglio non seppero fare che balbettare all’ultimo di Paradiso.

Sulla riva del Nilo, «in un punto deserto, dov’erano acquitrino e sodaglia», dal fango è facile per tutti i sognatori creare nuovi mondi immaginali. Ma solo pochi restano fedeli alla loro stella.
Solo pochi osano avventurarsi nel fangoso canneto, dirimpetto alla locanda, per dare ascolto a una voce senza corpo. Solo i Persiani sanno andare a riprendersi i sogni perfino sulle Pleiadi!
Accadde però che Odisseo non si scordò di tutto. Accadde che Calipso non lo poté «nascondere» al suo destino che per un momento: giusto il tempo che Odisseo ricadesse nella nostalgia, il tempo che gli venisse voglia di tornare in se stesso.
Per sette o, forse settanta, lunghissimi anni, Odisseo fu tenuto all’oscuro del suo destino. Un lungo sonno l’avvolse in una nuvola di fumo. Sognò di essere all’ombelico del Mondo, non distante dalla vecchia Ogigia, a un tiro di schioppo dalla Casa della Nonna.
Sognò di rimettersi in viaggio. Era vecchio, era stanco – ma sognò lo stesso di riprendere il «folle volo» della sua giovinezza.
Nessuno sa più dove fosse diretto – perché chi, come Odisseo, una volta nella vita è stato «sedotto», chi una sola volta s’è lasciato ubriacare dai liquori della Tentatrice, chi nei tentacoli del suo erotismo s’è lasciato catturare anche solo per una notte, da allora non naviga più nelle acque dei nostri mari.
Da allora, il Sedotto è altrove. È solo in sogno che a qualcuno succede di incontrarlo – solo a chi, non meno di lui, disperso in alto mare, sedotto ed esaltato ancora naviga, ancora di quelle vertigini vortica, che lo fecero precipitare di sette cieli, giù all’inferno, non distante dal gorgo del risucchio.