L’eroe del Graal nel romanzo di Chrétien è Perceval, ovvero «colui che attraversa la valle», il viandante che, alla maniera degli uccelli di ‘Attâr, passa per le «sette valli» che lo separano dalla meta. Tutt’e sette non sono che quella sola «valle di lacrime» che si evoca nel rosario. Con questa non piccola differenza però: che a Perceval non basta un «ora pro nobis» per passare oltre. Il suo «problema» è proprio questo: sa che a ogni grano della corona che sfila, la Risposta è sempre quella: ora pro nobis. Sa che la Risposta è già data, sa che Essa, da tempo immemorabile, tiene saldati assieme tutti gli anelli della catena. Sa che Essa risponde a tutte le domande. Ma qual è la sua domanda, la domanda di Perceval?
La valle è dunque il «territorio» in cui Perceval è trascinato dalla Risposta: trascinato dai flussi del Racconto e dalle risposte che vi s’incontrano, spinto dai «voti di castità» che vi trova enunciati (innanzitutto «sintattica»: non disobbedire alle regole del dire!) fino a divenire del tutto «sterile», fino a non aver più nulla da dire, che non sia stato già detto – già contemplato nella Risposta che fluisce nella rete del Racconto.
La valle è un fosso tra due montagne, una cava o, se vuoi, una caverna alla rovescia. Non è dentro, ma fuori. Non latente, ma patente. Non oscura né notturna, ma chiara e diurna. La valle è fin troppo evidente – è questo il suo comico problema.
Il problema della virtù di Perceval è che si trova già ad essere risolto, e l’Eroe non ha da fare altro che complicarselo.
Che dici? non ti pare pure a te di essere tra due montagne, di cui però una sola si vede? non ti pare di vedere solo quella dove già sei stato?
Perceval «ha visto» solo la Risposta, gli resta adesso da trovare il coraggio di percorrere la lontananza che lo separa dalla sua domanda, da quella domanda a cui già sa che gli altri in coro sono pronti a rispondere: ora pro nobis!
Tutti in coro, anche quelli che stonano (io ne so qualcosa) – coperti e allineati, credenti e miscredenti – tutti, indistintamente, formiamo una sola catena di frecce, di dicerie e di bestemmie lanciate contro il cielo.
Coperti e allineati sulla Risposta anticipata!
Ora pro nobis, lascia perdere: così il suo Maestro d’arme l’aveva istruito. Aveva detto a Perceval: prenditi la Risposta e che non ti venga in mente la folle idea di fare domande. È così, e basta!
Dici che non è così? – eppure anche questo tuo «non così» è solo un modo di dire.
Abbiamo tanti modi di dire fatti apposta per non dire niente – cioè per dire sempre e solo la Risposta. Tutto si può dire. Si può dire sì e si può dire no, che è così o che non è così. In entrambi i casi, si parte da una risposta, e non ci si accorge che, quale che sia questa risposta, non è essa che conta.
Conta sapere la domanda a cui è usanza invariabilmente rispondere: ora pro nobis.
Ma più che saperla, ciò che conta è enunciarla questa domanda! È facendosela passare per bocca che Perceval diventa infine, come dice il suo nome, «uno che attraversa la valle». Evidentemente perché la valle è fatta di parole, e nelle parole, nei castelli che le parole innalzano, è facile illudersi di avere scalato anche l’altra Montagna, quella che non si vede. È facile nascondersi dietro il velo delle risposte già confezionate.
Perciò è legittima anche l’altra interpretazione, secondo cui il nome di Perceval alluderebbe a «colui che lacera il velo», a «colui che lo rende trasparente», a «colui che penetra» la cortina che gli vela la vista del castello del Graal sull’altra Montagna.>
Che sia la valle o il velo, non importa. Importa la prima parte del nome: quella dove si dice che il «gesto» che caratterizza l’Eroe del Graal è un «perciare» (detto in napoletano), è un percer (in francese), è il to pierce inglese. È il trapassare, il penetrare, il farsi strada, è l’aprirsi una via nel vasto reame che separa l’Eroe dalla Domanda di cui sa in anticipo la Risposta.
Svelare a se stesso d’essere infossato in una [settemplice] valle: tengo nu’ pierce ‘nfront, direbbe Perceval se fosse nato ai piedi del Vesuvio, anziché alle falde di Montsalvat. Il suo orecchio sarebbe in ogni caso «trapanato» da un dialetto, invasato dalle sue mille e una notte, ogni notte una favola, fino a quella più favolosa – quella dove i miracoli succedono prima che uno li chieda. Arri cacauro!
Ecco, non l’hai chiesto: eppure, guarda! Dinanzi a te sfila in processione il santo Graal del Racconto. Dinanzi a te il Racconto esibisce i suoi «prodotti» più preziosi.
La spada, la lancia e la coppa: i tre Semi del Mazzo di Carte. Il quarto (l’oro) è quello [della Domanda] mancante. È nascosto nel castello dove Perceval è già stato, ma in cui non può tornare, se non passando per la via stretta, per il buco, per il «piercio» della Domanda che ancora gli manca.
Dal canto suo, Wolfram, come fa con tutti i nomi francesi (con la scusa di tradurli in tedesco, di fatto li storpia a uso e consumo del suo racconto), reinterpreta anche quello dell’Eroe, trascrivendolo in Parzival, come a intendere: delle tre saette d’arco tricordo, quella che ne è il medio armonico, la sola delle tre che dall’una all’altra riva va «senza traghetto né nave né ponte».
L’interpreta come la freccia dell’intuizione che va dritta al cuore delle questioni, quella di cui non si vede l’arciere che la scocca. E che per giunta la scocca dopo che essa è giunta a bersaglio!
Parzival è dunque, per Wolfram, l’Eroe di questo folle anacronismo su cui si regge tutta la follia umana.
Ma, se di follia si tratta, viene da chiedersi se c’è, e qual è, la terapia. Lo so, Lacan si fregherebbe le mani: quello di Parzival è, infatti, il caso che più si confà alla sua idea di «futuro anteriore», all’idea dell’anello della catena significante (nel nostro caso, la processione del Graal), all’idea di quella parolina che ci anticipa, a nostra insaputa, la follia a cui siamo destinati, di quel «segno» che ci segna il destino, destinandoci a trovare futuro in ciò che essa ci ha già «detto».
Perduto nei labirinti della sua mitologia, Wagner a sua volta preferì chiamare l’Eroe Parsifal giocando sull’accostamento di due nomi simbolici: Parsi, cioè i Persiani, l’Oriente, e Fál, cioè l’Occidente celtico (Stone of Fál).
«Ti ho chiamato l’ingenuo Fál Parsi / proprio l’ingenuo Parsifal»: dice Kundry.
Seguendo l’ispirazione avuta la mattina del Venerdì santo, nel nome dell’eroe Wagner credette di udire la «confluenza» dei due filoni esoterici, quello occidentale e quello orientale, l’uno che nell’altro faceva risuonare l’eco di un Enigma antico quanto l’Uomo.
Dell’Indovinello che, da solo – secondo Wagner – ci fa uomini.
Avrebbe dovuto capire quel che Nietzsche intanto si dannava l’anima a capire, e cioè: che quello della castità di Parsifal, del cristianissimo Parsifal (così poco pagano, secondo Nietzsche), non è che un flusso che scorre nel Racconto, e che solo dalla sua confusione con l’altro flusso, quello della perversione sintattica e sessuale di Edipo, esso diventa «creativo di umanità».
Nietzsche riuscì a dirlo fin dove lo portarono le metafore di Apollo e Dioniso: non è la stessa cosa di Parsifal ed Edipo, eppure siamo sempre alle prese con l’ambiguità del nostro racconto a noi stessi. Arri cacauro!
Nel Racconto non ci sono che lampi di genio. Vedi il lampo di una risposta, perdi di vista la sua genialità! Fatti poche illusioni: non ci sono che domande senza risposte, e risposte a domande che non hai mai fatte. Le une non fanno che permutarsi nell’inverso simmetrico alle altre. A volte sconfinano le une nel Paese delle altre. E forse è proprio allora che, per un istante, producono quel buco, quello spioncino da cui è ancora possibile «vedere» la nascita di un uomo.
L’uomo nasce, sì, alla «confluenza di due fiumi», di due «filoni esoterici» delle lingue d’Oriente e d’Occidente. Aveva intuito giusto Wagner, ma come gli rinfacciava Nietzsche, non s’era tenuto all’altezza della sua intuizione.
Si era, pure lui, accontentato di rispondere, laddove ancora doveva apprendere a domandare.
Si era appagato, pure lui, di rinnovare, genialmente non c’è dubbio, sempre il solito, l’antico, l’Invariabile ora pro nobis!