Appena è sopra il ponte levatoio, Perceval incontra quattro valletti. Due gli tolgono l’armatura, uno porta via il cavallo per dargli avena e foraggio, l’ultimo gli ricopre le spalle con un mantello scarlatto nuovo e fresco.
Poi lo conducono alle logge. Di qui a Limoges non se ne sarebbero viste di più belle. Il Cavaliere vi si trattiene finché il signore lo manda a cercare da due servitori. Li segue.
Al centro di una vasta sala quadrata, che è larga quanto lunga, è seduto un gentiluomo di bell’aspetto, i capelli già quasi bianchi. Ha un cappuccio di zibellino nero come le more. Intorno al cappuccio s’avvolge un tessuto di porpora.
Il gentiluomo si appoggia al gomito. Davanti a lui, al centro tra quattro colonne, arde un gran fuoco vivace di ciocchi secchi. Così grande che quattrocento uomini almeno avrebbero potuto riscaldarvisi e ciascuno vi avrebbe trovato posto. Le colonne alte e solide che sostenevano il camino, erano opera di bronzo massiccio.
Accompagnato dai due valletti, davanti a tale signore compare l’ospite che si sente salutare: «Amico, non me ne vorrete se per farvi onore non m’alzerò: farlo non mi è agevole».
L’ospite risponde: «In nome di Dio, non datevene pena! Non ho nulla da lamentarmi, se Dio mi dà gioia e salute».
Ma il gentiluomo se ne dà tal pena che s’affatica a sollevarsi dal letto: «Amico, non temete! Avvicinatevi! Sedete accanto a me. Ve lo ordino».
L’ospite si siede, e il gentiluomo gli domanda: «Amico, da dove venite oggi?».
«Signore, questa mattina ho lasciato un castello chiamato Beaurepaire».
«Dio mi salvi! Avete avuto una lunga giornata! Questa mattina vi siete messo in marcia prima che la scolta suonasse il corno dell’alba!».
«No, signore. L’ora prima era già suonata, ve l’assicuro».
Mentre parlano entra un valletto da una porta. Ha una spada appesa al collo. L’offre al signore che la estrae un poco dal fodero e vede bene dove la spada fu fatta, che sopra vi è scritto. La vede d’acciaio sì duro che in nessun caso ne sarà spezzata, salvo uno. E solo lo sapeva chi l’aveva forgiata e temprata.
Il valletto che l’aveva portata dice: «Signore, la bionda damigella, la vostra bella nipote, vi fa omaggio di questa spada. Mai avete avuto arma più leggera per la sua misura. La darete a chi più vi piacerà, ma la mia signora sarà contenta se questa spada verrà rimessa nelle mani di colui che saprà ben servirsene. Chi la forgiò non ne fece che tre. Poiché morrà, non ne potrà mai forgiare altre».
Subito il signore la rimette a colui che là dentro è straniero, porgendogliela per i fermagli che valgono un tesoro. Poiché il pomo era d’oro, l’oro più fino d’Arabia o anche di Grecia, il fodero lavorato in oro di Venezia.
Sì preziosa, gliene fa dono: «Bel signore, questa spada fu fatta per voi. Voglio che sia vostra. Cingetela e sguainatela».
Così fa il giovane mentre ringrazia. E cingendola lascia un po’ lento il cinturone. Estrae la spada dal fodero e, quando l’ha tenuta un poco, ve la rimette. Gli si addice a meraviglia, appesa al corpo come un pugno. E sembrava proprio esser l’uomo adatto a giostrarvi da vero barone.
Affida la spada al valletto che sorveglia le sue armi, che si tiene in piedi con gli altri intorno al gran fuoco vivace e ardente. Poi va a risedersi presso il signore che tanto onore gli ha reso.
Tale chiarore fanno nella sala le fiaccole, che non si troverebbe al mondo riparo più illuminato!
Mentre parlano di questo e d’altro, un valletto viene da una camera e tiene una lancia lucente impugnata a metà dell’asta. Passa tra il fuoco e coloro che sono seduti sul letto.
Una goccia di sangue colava dalla punta del ferro della lancia. Fin sulla mano del valletto colava la goccia di sangue vermiglio.
Il giovane ospite vede tal meraviglia e si trattiene dal domandarne ragione. È perché rammenta le parole del maestro di cavalleria. Non gli insegnò che mai si deve parlare troppo? Porre domanda sarebbe villania. Non dice parola.
Due valletti arrivano allora, tenendo in mano candelieri d’oro fino lavorato a niello. Uomini molto belli erano i valletti che recavano i candelieri. In ogni candeliere bruciavano dieci candele, a dire il meno.
Una fanciulla molto bella, slanciata e ben adorna coi valletti veniva e un Graal aveva tra le mani. Quando fu entrata nella sala col Graal che teneva, si diffuse una luce così grande che le candele persero il chiarore, come stelle quando si leva il sole o la luna.
Dietro di lei un’altra damigella recava un piatto d’argento. Il Graal che veniva avanti era fatto dell’oro più puro. Pietre vi erano incastonate, pietre di molte specie, le più ricche e preziose che vi siano in mare o sulla terra. Nessuna potrebbe paragonarsi alle pietre che cingevano il Graal.
Come la lancia era passata davanti al letto, così passarono le due damigelle. Andarono da una stanza all’altra. Il giovane le vide passare, ma a nessuno osò domandare a chi si presentasse il Graal nell’altra sala, perché sempre aveva nel cuore le parole dell’uomo saggio, il maestro di cavalleria.
Purché non ne derivi sventura, ché m’è capitato di intendere che il troppo tacere talvolta non vale meglio del troppo parlare. Ma che ne abbia ventura o sventura, l’ospite non pone domanda.
Il signore comanda allora che si porti l’acqua, che si mettano le tovaglie. E così fanno i servitori. E allora il signore come l’ospite si lava le mani nell’acqua scaldata come si deve.
Due valletti portano una grande tavola d’avorio, fatta d’un sol pezzo, come testimonia la storia. La tengono davanti al signore e all’ospite.
Altri servitori sistemano due cavalletti doppiamente preziosi, che per il legno d’ebano di cui son fatti dureranno a lungo, e nessun pericolo che brucino o marciscano. Ma questo non sarà il loro destino.
Su tali cavalletti i servitori hanno appoggiato la tavola, sulla tavola stesa la tovaglia. Che dirò di questa tovaglia? Mai legato né cardinale né papa mangeranno su tovaglia più bianca!
La prima portata è un coscio di cervo, ben pepato e cotto nel suo grasso. Bevono vino chiaro e mosto serviti in coppe d’oro. È su un tagliere d’argento che il valletto taglia il coscio e ne dispone ogni pezzo su una grande focaccia.
Allora davanti ai due convitati un’altra volta passa il Graal, ma il giovane non domanda a chi lo si serva. Sempre ricorda il gentiluomo che dolcemente l’ha impegnato a non parlare troppo, ché sempre l’ha nel cuore. Ma tace più che non dovrebbe.
A ogni portata che si serviva, vede ripassare il Graal davanti a sé tutto scoperto. Ma non sa a chi lo si serve. Ha desiderio di saperlo, ma pensa che avrà tempo di domandarlo domani a uno dei valletti della corte, al mattino quando lascerà il signore e tutta la sua gente.
Rinvia così la domanda.
(Chrétien de Troyes, Conte du Graal)