In poesia, cioè nel genere letterario più alto, nessuna traduzione, se anche esiste, può far conoscere l’opera nella sua completa e vera vita.
Eppure è certo che la maggior parte di noi non mente né finge quando, senza sapere il greco, si lascia trasportare dall’entusiasmo per Omero, oppure, con una conoscenza profana e superficiale del latino, ha il culto di Orazio e di Catullo.
Non mentiamo né fingiamo: presentiamo. E questo presentimento, frutto di non so quale insieme di intuizione, suggestione e oscura comprensione, è una specie di traduttore invisibile, che accompagna da un’era all’altra e rende universale, come la musica, l’arte espressa attraverso la lingua, questo prodotto di Babele con la cui rovina l’uomo è caduto per la seconda volta.
Quanto c’è di più alto in questo mondo parla, che lo si voglia o meno, un linguaggio simbolico, capito da pochi con la vera chiave ermetica, l’intelligenza, e dai più con l’istinto a capire, cioè con l’intuizione.
Nel caso dell’opera letteraria, i primi sono coloro che conoscono la lingua in cui l’opera è scritta, perché è la loro madrelingua; gli altri, quelli che non la conoscono altrettanto bene o non la conoscono affatto, ma che, pur non conoscendo la lingua, sono tuttavia in grado di capire l’opera.
Ma c’è di più, e di più strano. Possiamo, per intuizione o con quel che sia, figurarci l’anima e la vita di un’opera poetica di cui non sappiamo niente, o di cui, nella migliore delle ipotesi, conosciamo solo una versione in prosa, che è un’altra forma, più complessa, dello stesso niente.
Molti di noi, però, si figurano con discreto esito l’anima e la vita di opere che non hanno mai letto, grazie a vaghe reminiscenze di riferimenti, a oscure e casuali allusioni; e lo stesso vale per opere, sempre in lingua straniera, di cui non esiste, o perlomeno non abbiamo mai letto, nessuna traduzione.
Qui il traduttore invisibile opera invisibilmente. Non ci muoviamo più per intuizione: indoviniamo. È come se ci fosse in noi una parte superiore dell’anima che per natura conoscesse tutte le lingue e avesse letto tutte le opere.
In fin dei conti, che cos’è un’opera letteraria se non la proiezione in linguaggio di uno stato dello spirito, o di un’anima umana? E quest’opera è il simbolo vivente dell’anima che l’ha scritta, o del momento in cui quest’anima – una piccola anima contingente – l’ha proiettata.
Perché non dovrebbe esserci una comunicazione occulta da anima ad anima, un comprendersi senza parole, mediante il quale indoviniamo l’ombra visibile attraverso la conoscenza del corpo invisibile che la proietta, e comprendiamo il simbolo, non per esperienza diretta, ma perché conosciamo ciò di cui è simbolo?
Chissà, perfino, se in qualche stato prenatale non ci siamo trovati faccia a faccia con l’opera, non nel corpo verbale che possiede in questo mondo, ma nel suo spirito; se non sia possibile, soltanto sentendone parlare, sapere subito di che si tratta; e se poi, leggendo male o non leggendo affatto, non venga suscitata in noi, non una comprensione, sia pure intuitiva, ma una profonda e sottile memoria?
Chissà, per di più, se in questo stato prenatale, ancora fuori dallo spazio e dal tempo, non abbiamo già visto tutto, il passato e il futuro di questo mondo, sub specie aeternitatis; e così, una volta in grado di risvegliare in noi questa anamnesis, se non siamo, oggi, noi stessi traduttori invisibili, signori inconsapevoli delle opere che devono ancora nascere nel corso futuro del mondo?
Perciò non sorrido, o meglio non sorrido sempre e immediatamente, di coloro che mi parlano di Shakespeare senza conoscere l’inglese – e scelgo Shakespeare come esempio perché, fra i poeti, è quello più fedelmente sposato con l’indole e con le risorse della lingua in cui scrive e, quindi, come ogni buon marito, anche con le maniere e con gli espedienti per ingannare questa lingua.
Non sorrido. Chissà se, in qualche incarnazione precedente, chi mi parla non abbia conosciuto Shakespeare come fu in questo mondo, non abbia parlato con lui nei modi che usava, e non sia, senza che lui o io lo sappiamo, il traduttore invisibile di un grande amico ritrovato.
(Fernando Pessoa, Pagine esoteriche)