Leggo e rileggo Lacan, e intanto

stella-uccelloLeggo Lacan, capisco quel che capisco del suo esperimento del vaso coi fiori, e intanto [da dove mi trovo] non posso fare a meno di «vedere» Óðinn che «getta» un occhio nella fonte di Mímir, Óðinn che ha solo quell’occhiata per fabbricare il «sottilissimo filo» di tutte le sue magie.
Vedo [dalla mia posizione] l’esperimento di Lacan [il vaso reale] ed, ecco, sopra ci spunta un mazzo di fiori [del mio immaginario]: c’è forse un modo migliore di «collaudare» quello che scrive? E intanto, con quel poco o meno di niente che capisco, mi domando se non è di un miraggio che stiamo qui parlando. Mi domando: di cos’altro ci stiamo occupando se non del miracolo che avviene nell’incontro tra l’occhio e lo specchio di Narciso?

Insomma, il testo di Lacan gioca nel mio sguardo la stessa parte che ha il vaso nel suo esperimento: sono io [nella mia posizione] che vedo anche certi strani «fiori immaginari» che lo riempiono. Fiori che non ci sono, fiori che non sono reali, ma che io ci vedo lo stesso! fiori irreali, di cui però, Lacan sarà il primo a essere d’accordo, ho un’«immagine reale»! fiori che si possono avvistare solo dalla mia posizione, e solo se per caso i raggi dello specchio mi fanno uno scherzo.

Però li vedo, e dico: caspita, è questo il «malocchio», è questo ciò che succede all’occhio di Óðinn una volta gettato nella fonte di Mímir! Gli succede di farsi intrappolare in un miraggio, in cui si trova a essere messo a fuoco il punto di giunzione tra il «reale» e il suo «immaginario», quella sutura misteriosa che per un istante confonde i due mondi e sovrascrive nel suo sguardo i fiori al vaso, quella saldatura miracolosa che, dunque, non si può più dire né reale né immaginaria, perché è tutt’e due insieme – e perciò, per distinguerla, conviene chiamarla «immaginale».

Su ogni «reale», e non solo sul testo di Lacan, i miei occhi fanno fiorire certe loro «scritture» precedenti. I miei occhi, tutto ciò che i miei occhi hanno visto, precede ogni riconoscimento. I miei occhi vedono da prima di me, da quando io ancora non c’ero. I miei occhi hanno fatto di me quel che sono. Essi mi hanno creato, essi mi hanno messo al mondo. Essi soprattutto mi hanno scritto una storia. Per scriverla gli sono bastati appena quattro scarabocchi. E adesso sai che fanno? Su ogni «reale», e dico soprattutto sulla realtà delle persone reali, proiettano quel loro antico immaginario, ora questo ora quel vecchio «visto». Essi cercano ancora, non sanno fare altro che cercare ancora la «cruna dell’ago» per cui passarono una volta nella Terra Celeste, in quel mondo che non è né il cielo né la terra, ma la loro nuziale «confusione». La loro meravigliosa giunzione «immaginale».

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Van Gogh – Vaso con iris

Eri un vaso vuoto quando ti ho incontrata, e – ci scommetto – più vuoto ancora dovetti sembrarti io prima che tu mi riempissi dei tuoi fiori, che dei miei non erano meno innocenti, ma forse solo più perversamente tinti. Guardarci, quella volta, fu come sbocciare l’uno nel giardino delle fantasie dell’altra. Ci eravamo già visti. Dovevamo solo riconoscerci.

È lo sguardo della sua «innocenza» che Óðinn sacrifica alla fonte: è l’orchidea selvaggia delle sue curiosità che gli «perverte» l’incoscienza visionaria. Óðinn ha un occhio solo: in un solo colpo d’occhio riempie, tutto ciò che vede, di sue vecchie immagini, mischia reale e virtuale in una sola surrealtà. Sono gli altri dèi che sanno distinguere il maschio dalla femmina, o il bene dal male. Lui no, Óðinn no, lui a differenza di tutti gli altri dèi, è ancora alla fonte di Mímir. Ancora non è né reale, né immaginario, il suo mondo. Óðinn è tuttora, e sempre resterà, nel mondo immaginale!
Perciò lo vede soltanto chi si acceca alla distinzione tra reale e immaginario. Lo vede apparire soltanto nel miraggio di una loro giunzione casuale.

Tu che come un fiore sei spuntata, per invasare la mia «realtà». Tu la fragile, tu la colpevole. Tu la lucente nera.
Ti ho vista nascere il giorno in cui mi hai messo al mondo.
Bellezza, Venere, Natura – chiunque Tu sia – Potenza di quella stessa potenza che «scrisse» le stelle sugli occhi della Notte – Memoria di quella memoria che la Notte stessa, lo stesso Oblio si appunta – Sovrana, chissà quante volte ti ho vista, eppure faccio ancora fatica a riconoscerti.

Chi sei?
Tu non sei né immaginaria né reale.
Dove vivi?
Tu non vivi nello specchio, anche se è solo in un gioco di specchi che ti è dato apparire.

Ecco: sei apparsa, e la tua apparizione ha avuto l’abilità di farmi essere, da subito, ciò che ancora non ero diventato!
Non ero che un lupo, prima che tu nel tuo sguardo m’incatenassi. Sul lupo, come sul vaso i fiori, sono spuntate le mie due corna!
Immagino che tutta la mia vita, tutto il tempo della mia vita, non mi basterà a
«frustarti». Non sei tu l’Impura da purificare. È l’immagine di Beatrice, pensò Mastro Dante – è Lei che mi impedisce, Madonna Intelligenza, di riconoscerti.

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Monet- Ninfee

Ti ho vista, ti vedo, e ti vedrò ancora – vedo tutte le immagini del mio essere, e a ogni immagine mi connetto a un filo nervoso del mio «midollo immaginale».
Non potevo sapere che era la tua immagine a nasconderti a me. Ho dovuto aprire il vaso, entrare nella scatola dell’esperimento di Lacan, per capire che, fuori dal tuo cono di luce, c’è solo realtà.
Da sempre c’è solo una misera vuota insignificante «realtà». C’è un vaso in cui nessuna immagine è mai fiorita.
C’è il mondo che non vuole l’Uomo, fuori dal cono della tua luce.

Torno a leggere Lacan, forse è meglio. Sono troppo ingenuo, o forse troppo scaltro – per non farmi eccitare dalle sue astuzie.
Ma cos’ho da leggere, cos’ho da realizzare leggendolo, cosa posso aspettarmi di comprendere: lui, me o quel «piano» che è tutto ciò che può dirsi Umano, quella Superficie più sottile di una pellicola trasparente, su cui avvengono i miraggi che ci accomunano?
Perché questo è l’assurdo: che ciò che vi è di più singolare, di più proprio e individuale, ciò che è più di tutto «soggettivo», come può essere l’apparizione di un arcobaleno, è esso il buco della serratura per cui si entra nella Realtà Umana. O forse meglio: per cui si esce alla Narrazione Umana del Mondo.

È il Racconto, solo il Racconto che accomuna i nostri singolari miraggi. Ci accomuna solo la voglia di raccontarceli, perché è quello il nostro tesoro. E perciò non facciamo altro che produrre il nostro racconto sui racconti altrui. Nient’altro che riempire dei nostri fiori il vaso vuoto di Pandora: tutti i doni di cui Natura è capace, tutte le Intelligenze con cui Madonna provvede a Se Stessa, brillano una sola volta nei nostri occhi e poi prendono il volo.
Solo il Racconto ne serba memoria.
Solo il Racconto nuota come il salmone: controcorrente!