Gli eroi fanno a gara a chi più spavaldo va – dritto incontro alla morte. Perché gli eroi sono destinati a morte. A quella morte da cui altro non hanno da aspettarsi, a cui nient’altro hanno da chiedere – nient’altro: solo che apponga il suo sigillo sul loro istinto di annientamento.
Istinto bruto, istinto di natura. Selvatico Bruto di cui muore ogni Cesare. Orrido precursore a cui non avanza tempo – perché tempo non c’è, finché qualcuno «eroicamente» non lo scandisce. Finché la morte di un Eroe non «taglia» il flusso di Lete perpetuo (e … e … e …) in cui sonnecchia la sua tribù.
No, non c’è altro tempo che l’istante in cui gli eroi fiammeggiano e si spengono nel loro atto eroico. Gli eroi si annientano: come falene, nelle fiamme bruciano che il loro stesso ardore alimenta.
Gli eroi sono pazzi che si sacrificano – che si danno in pasto ai poeti e ai più o meno esaltati scribi di memorie.

Quelli che sopravvivono non sono eroi. E non sono eroi nemmeno quei viandanti dello scrivere, che delle loro gesta provvedono a lasciarci notizia. Non sono eroi neanche i loro parenti più prossimi. Neanche i ricordi più remoti. Neanche le prime icone, le primizie acerbe della nostra poetica libido infantile possono dirsi eroiche. Perché al tramonto della nostra infanzia, gli eroi che fummo – i fantasmi che avvistammo, si estinsero.
Noi che invece dall’eroica via deviammo – dalla via che a eroica morte ci destinava, che ci destinava a morire senza sapere nulla della morte – noi invece, noi vicari degli eroi, noi sopravvissuti ci disperdemmo per gli infiniti sentieri del caso.
E il caso ci portò nel bosco di mille cieche tentazioni. Il caso c’imbrogliò nella matassa di mille sorde ripetizioni. E poi ancora mille – disse il poeta. Disse: dammi mille baci, mia dolce Lesbia. Ma disse anche, per bocca di Archiloco: getta via da me lo scudo che mi difenderebbe dal panico della molteplicità, e senza vergogna lasciami cadere nella rete della tua stessa prostituzione universale (e … e … e …).
Alla maniera di Ulisse – così tutti i viandanti che sopravvivono al loro proprio originario atto eroico, quelli che, sia pure con la scoppola, escono vivi dalla caverna di Polifemo (dove, lo dice la parola, è tutto confusione di «molte voci», ubriache e insieme ubriacanti, «fatte» di una sola selvatica ebbrezza), tutti i poveri cristi scampati per caso alla strage degli innocenti, intraprendono un difficile viaggio attraverso le mille vie che biforcano fuori dal seme della loro eroica (estinta) semenza.
Arrancando chi a destra, chi a manca – chi sopra, chi sotto – noi, sì, i sopravvissuti, riceviamo la nostra propria identità dalla nostalgia del Defunto che per un istante fummo. Troviamo posto solo nel vuoto della sua mancanza.
Tutti i fantasmi che deliriamo – è solo per riempire quel vuoto, che li «vomitiamo». Puoi chiamarlo dio, essere o come ti pare: quel vuoto è la sola cosa che ci avanza. E quei fantasmi puoi immaginarteli angeli, demoni, maghi, mostri o draghi, hanno solo da funzionare – solo da agire come «funzioni» del defunto Precursore.
Chiamalo Esaù, chiamalo il Peloso – è sempre lui: il Selvatico Bruto istinto di natura.
Istinto ad annientarci.
I viandanti che delirano, quelli che ai loro fantasmi danno asilo, come Ulisse nell’antro di Polifemo, sanno di essere (funzioni di) Nessuno. Funzioni di chi ancora non sa il suo nome proprio.
E perciò non si tirano indietro di fronte agli oracoli della Sibilla, né si fanno intimorire dagli incantesimi di Circe o dagli indovinelli della Sfinge. Essi hanno un loro «alfabeto» congenito, una loro sapienza «muta».
Le Ombre che popolano l’Ade, Enea le «attraversa». Forse come tutti, anche Enea ha paura, però nell’Invisibile si avventura lo stesso. Enea sa di essere un «sopravvissuto», e perciò escluso dal rango degli Eroi. Un solo pensiero lo conforta: egli è «figlio» di Venere. E se la madre è scesa in terra a partorirlo, lui sottoterra deve andare a «vedere» le memorie di quanti Eroi per amore di Lei morirono. Di quanti ancora non sapevano quello che adesso Enea, il sopravvissuto, sa.

Enea sa che la Sibilla è una Voce senza corpo, soltanto l’Eco di un «dire» antico, insensato, sgrammaticato. Sa che Circe è una maga, che ha stregato perfino gli dèi; sa che con una delle sue stregonerie è stata capace d’invertire oriente e occidente. Sa che, comunque camuffata, è sempre con la sua Sfinge che il solutore degli indovinelli ha a che fare.
Il bello però è che, di tutto questo sapere, Enea non sa più che farsene. Enea è sopravvissuto a troppe morti «eroiche», per non sentirsi in dovere di andare a chiedere alla Morte: perché?
Gli ermetici divagano, ecco tutto. E perciò sono attratti dai labirinti e dalle morte gore che a spirale si avvolgono giù fino all’inferno. Tanto che, se Sansone su tutte le furie facesse crollare le porte e i muri della loro mente, non vi troverebbe che un oscuro paradiso imprigionato nella ragnatela di luci di mille arcobaleni. Un solo istinto di morte celato da mille appetiti e desideri (e … e … e …).
Non si dice forse che è impossibile cavare un ragno dal buco?
E dove altro mai gli ermetici sono così vicini al buco nero della loro mente, dove se non quando, viaggiando, essi sprofondano nel Paese dei morti? in quel Paese che, per quanto prossimo al loro annientamento, è comunque pur sempre qualcosa? Una parola al posto del mutismo. Una rappresentazione del niente invece di niente.
Non sono gli eroi morti a popolare il Paese dei morti. Sono le loro ombre, dice Omero. Sono i loro fantasmi. Le fantasie che le loro gesta suscitano nei sopravvissuti. I sogni che per un istante sembrano restituirceli. Sono i miraggi in cui gli ermetici temperano lo sguardo duro della loro medusa. Sono gli incantesimi con cui danno un tempo all’intempestivo per eccellenza.
Che cosa c’è, infatti, di più intempestivo di un’intuizione nuda e cruda? Ha forse, essa, un tempo che la prepara, una causa di cui sia l’effetto – o è proprio la sua folle «novità senza precedenti» a distinguerla dalla conoscenza per memoria? è forse l’intuizione il prodotto di un lavoro, o non somiglia piuttosto a qualcosa come la grazia e il miracolo?

Gli ermetici che hanno avuto la grazia, i miracolati che escono dal seminato e delirano, i viandanti che smarriscono la retta via e divagano, essi sanno d’essere i sopravvissuti all’intuizione bruta in cui i loro eroi si annientarono. Sanno che o si muore nella propria unica e sola intuizione selvatica e naturale, o se ne esce nascendo a vita nova. A una vita che non è più in rapporto causale con la precedente. Che con la vita di prima ha solo una relazione fantasmatica. Una relazione mediata dai fantasmi che dal buco del ragno, dal paradiso perduto, li hanno seguiti fin nel Paese dei morti.
A differenza degli eroi, gli ermetici non attendono armati l’ora fatale di una sola morte da morire gloriosamente.
No! Inermi e spaventati, essi non restano a guardare negli occhi la medusa, ma si lasciano andare alle mille onde del caso, e poco importa se per via si scordano da dove e come e perché e con quale nome un giorno partirono.
Quel che a loro importa è solo moltiplicare per mille la loro morte. È confondere il terrore della loro sola morte nella gloria di mille e mille eroi. E poi ancora mille baci. Per favore, disse il poeta, dammeli senza scudo. Perché se a ogni madonna il suo devoto si dà, eroicamente, se invece di ritrarsi si getta nelle fiamme della sua intuizione – dopo, non resta più niente. Solo un anonimo Nessuno che si è estinto nella sua devozione.
L’ermetico invece a tutte le madonne altrui sinceramente si prostituisce (e … e … e …) per morire mille volte, a ogni morte piegando a destra o a manca per sfuggire alla sua.
E così l’ermetico finisce che si scorda la chiave del suo sapere, e ormai più non sa se l’Ulisse autentico si celi nel racconto del falso cretese o se, piuttosto, nell’astuzia di un bugiardo incallito non riposi la frode che ogni uomo immancabilmente escogita ai danni di se stesso.
L’ermetico non vuole sciogliere i dilemmi e le ambiguità – ama piuttosto danzare sulle punte delle loro spade.