Lascia fare alla formica!

Vi chiedo solo un po’ di pazienza.
So che la «cosa» che sto per dirvi ha tutta l’aria d’essere una scemenza, perciò vi chiedo solo di avere con me un po’ più di pazienza del solito. Vi chiedo di fermarvi con me cinque minuti a fingere di dare credito al Racconto: a fingere che il Racconto meriti d’essere trattato per quello che Lui stesso, poco fa, per bocca di Apuleio, sia pure «sotto semaforo» direbbe Totò, ha confessato di essere: ossia un mucchio di racconti, un ammasso di chiacchiere gettate alla rinfusa, una catena di «si dice», una torre di babele di scienze e di credenze, una nebulosa di dicerie di cui però il Racconto stesso, mentre le racconta, ci tiene a dire che può aiutarci solo Lui a «rimetterle in ordine».

Miró-formica
Miró – Formica

Ci pensa la formichina, dice. Non temere, ci pensa la bambolina a fare la cernita dei semi! Tu, curati soltanto di darle da mangiare!
La formichina, la più piccina, la più umile e insignificante delle tue immagini, quella che si nutre delle briciole di «natura» che hai visto, ma che ancora non hai riconosciuto, essa che è poco più di un frammento, e tuttavia è la tessera più istintiva del tuo mosaico immaginario – il Racconto assicura: tu dormi pure, ci penserò io a mandarti in aiuto la formichina!

Il Racconto fa e disfa. Come Penelope – tesse continui «raggiri» per tutti i falsi pretendenti. Le parole del Racconto «copulano» con la Metafora senza segni: significandola, è così che eclissano Venere.
Perciò, a volte, come qui nel caso e per bocca del sedicente «mago» Apuleio, il Racconto parla quasi a voler sparlare di Se Stesso. È come se il Racconto, non sempre, ma a volte amasse essere insultato! Ci sono momenti in cui vuole che gli si faccia il solletico! Vuol essere costretto a vomitare quel che non può dirci, sa Lui perché.
Voi penserete: il Racconto mi nasconde un segreto!
Macché, è solo una scemenza sepolta sotto un mucchio di scemenze!

È tutto per te! – dice Venere a Psiche. E tramite Psiche – passando per la metafora che ci presta il suo nome – è il Racconto che lo dice a ogni suo avventore, non importa fino a che punto iniziato all’arte della Magia. È forse colpa mia, se tu ci credi? Io sono solo un mucchio di credenze, e credo che faccio bene a dirtelo, Psiche. Vedi tu se te la senti di trovare il bandolo della mia Matassa!

Warhol-Venere-Botticelli
Andy Warhol – (Psiche scritta sulla) Venere di Botticelli

Il Racconto si confessa: sono un Mucchio di racconti. Voci su voci, ora le une nell’eco delle altre le ho in-castrate, ora invece l’una contro l’altra le ho armate, e non solo di scienze, non solo di leggi, di usi e di costumi, ma anche e soprattutto di eserciti.
Prova tu a sistemarle … e io ti sistemerò per le feste, per tutte le feste in cui si festeggerà (finalmente) la «crudeltà» di Venere, la sua «natura» più antica – quella a vendicarsi di chi non la riconosce.

Il Racconto fa e disfa. La prova è data, ma perché non tu, ma chi fa le tue veci, la porti a compimento. Tu, fatti gli affari tuoi, e lascia fare alla formica! Se ci metti tu le mani, combini di sicuro un guaio.
Non una sola volta il Racconto lo dice, ma per ridondanza – perché qualcuno almeno ne ascolti l’eco – per ben quattro volte, per tutt’e quattro le fatiche di Psiche, ci tiene a ripeterlo: che l’impresa riesce, non a Psiche troppo presa nei suoi guai, ma solo ai suoi «equivalenti immaginali». Solo se nel suo repertorio immaginario figurano ancora le quattro tessere del Quadrato che gli è disceso in illo tempore nel cuore.

Tu che dici? una scemenza come questa non dovrebbe prendersi il lusso di farsi avanti e dire: fatemi provare a riconoscere ciò che ho visto, quando ero un’anima piccina, ma piccina per davvero?
Su, datemi ancora due minuti, giusto il tempo di dire che l’Immagine allora l’ho vista come l’hanno vista tutti. Allora ciascuno ha visto: «questa è la mia differenza». Ciascuno l’ha chiamata «la mia Donna», la madonna, Colei – come dice il Poeta – che sola a me par Donna, che da sola mi illumina Tutta la Donna, e la sua Totale Dominazione.
L’ho vista come l’hanno vista tutti, emergendo dal Lete.
Ma vederla non basta. Venere, l’Immagine, la nostra Prima, l’Antica Sposa, bisogna prima o poi riconoscerla. Bisogna ripescarla dal grande mucchio di chiacchiere sotto cui giace trista e confusa. Perlopiù sono chiacchiere volgari. Ne parlano tutti, perché tutti l’hanno vista – ma solo quattro scemi l’hanno riconosciuta. E non è il caso di dire a quale prezzo!

Ha ragione Freud. Anche lui le sapeva dire, le scemenze. Noi non vediamo, dice, che quello che riconosciamo. Noi vediamo solo quello di cui abbiamo già una prefigurazione immaginale. Il resto, no – non lo vediamo.
La prima Immagine (la prima «idea» di un io) non può che sorgere a un orizzonte dall’io troppo remoto, a un orizzonte in cui quegli occhi, senza essere ancora di un io, vedevano e vedevano e vedevano … e ammucchiavano visto su visto su visto finché … non La riconobbero.
Era solo una formichina, eppure troppo Differente, troppo blasfema, troppo eretica, ma soprattutto troppo «criminale» per passare inosservata. Troppo patente, troppo evidente, troppo abbagliante per non essere, Lei, la Stella della sua propria eclissi.