Apuleio – Le quattro prove imposte a Psiche

Burne-Jones-Venere-PsicheAppena Venere vide Psiche a lei trascinata innanzi e consegnata, si fece una gran risata, una di quelle di cui di solito ridono le persone quando sono stizzite, e scuotendo il capo e grattandosi l’orecchio destro disse: «Ti sei finalmente degnata di venire a salutare tua suocera? O sei venuta a visitare lo sposo che, per la tua piaga, è in pericolo di vita? Ma stanne certa, ti riceverò come si addice a una brava nuora».
E poi soggiunse: «Dove sono Sollecitudine e Tristezza, le mie ancelle?». E avendole chiamate, gliela consegnò perché la torturassero. E quelle, ubbidendo al comando della padrona, flagellarono a colpi di frusta la povera Psiche e la torturarono con ogni specie di sevizie, dopodiché la ricondussero al cospetto della padrona.

E allora, nuovamente sghignazzando, Venere disse: «Ecco, ora con la scusa del pancione mi vuole commuovere, per fare di me una nonna felice della sua illustre prole! E dovrei essere felice io, nel fiore della mia età, a essere chiamata nonna, e che il figlio di una vile ancella passi per nipote di Venere! Sono stupida però io a chiamarlo figlio: nozze tra persone di diverso rango, e per giunta consumate in campagna senza testimoni e senza il consenso paterno, non possono considerarsi legittime, e perciò costui nascerà bastardo, sempre che ti permetterò di portare a termine la gravidanza».

Ciò detto, le si avventa contro e le strappa e fa a pezzi la veste, e strappandole i capelli e percuotendole il capo la maltratta; poi, fattosi portare grano, orzo, miglio e semi di papavero, ceci lenticchie e fave, avendoli mischiati in un solo mucchio insieme confusi, così le dice: «Tu mi pari una così brutta servetta da non poterti procurare amanti se non servendoli premurosamente; allora io stesso metterò alla prova la tua abilità. Suvvia, separa codesto mucchio di semi promiscui e, avendoli disposti in ordine, e divisi che avrai i granelli uno per uno, entro stasera fammi trovare il lavoro finito!».

E consegnatole il mucchio di così tanti semi, se ne andò a cena col marito. Né Psiche pose mano a quell’ammasso confuso e inestricabile, ma costernata dall’enormità del compito rimase attonita e senza parole.

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Psiche e i mucchi di semi – Sala di Amore e Psiche di Castel s’Angelo

Allora una formichina, la piccola abitatrice dei campi, comprendendo la grande difficoltà di quel lavoro, avendo compassione della compagna del grande dio e disapprovando la crudeltà della suocera, sollecita corre di qua e di là e chiama a raccolta tutta la tribù delle formiche del posto: «Abbiate pietà, o agili figlie della Terra che tutto partorisce, abbiate pietà e prontamente accorrete in soccorso della sposa di Amore, una leggiadra fanciulla in pericolo!».

Le une sopra le altre, ondate di formiche a sei zampe si precipitano e, con grandissimo impegno, una per una spartiscono ogni singolo grano di tutto il mucchio, e dopo averli separati, distribuiti e dislocati per genere, prontamente scompaiono alla vista.

Ma sul far della notte Venere fa ritorno dal convito nuziale, madida di vino e profumata di balsami, con tutto il corpo avvolto di rose fiammanti e, vista la diligenza del mirabile lavoro, dice: «Non è opera tua, o scellerata, né delle tue mani, ma di qualcuno a cui a tuo, anzi a suo, danno sei piaciuta».
E gettatole un tozzo di pane raffermo, se ne va a dormire.

Intanto Cupido, tutto solo, era tenuto rigorosamente chiuso nel segreto di una camera isolata all’interno della casa, vuoi perché non aggravasse la ferita con qualche tentazione lussuriosa, vuoi per non farlo incontrare con la sua amata. Così dunque, distanti e separati sotto lo stesso tetto, gli amanti trascorsero una nera notte.

Ma, quando Aurora spinse innanzi il carro, Venere chiamò Psiche e così le parlò: «Vedi quel bosco che si stende lungo le rive del fiume che scorre laggiù, e i cui arbusti più bassi si specchiano nella vicina fonte? Là pascolano incustodite pecore candide e col vello color dell’oro. Voglio che tu mi porti di là, non importa in che modo tu lo prenda, un fiocco di lana di quel prezioso vello».

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Munch – Nudo

E quella volenterosa si avviò, non per eseguire l’ordine, ma per farla finita con le sventure precipitandosi da una rupe del fiume. Ma di là, dal fiume, una canna verde, piccola nutrice di una soave musica, divinamente ispirata dal lieve soffio di una dolce brezza, le diede questo responso: «Psiche, da tante avversità travagliata, non sporcare con la tua squallidissima morte le mie sante acque, e non ti avvicinare in questo momento alle terribili pecore, finché infiammate dall’ardore del sole cocente sono solite infuriarsi di truce rabbia, e con le corna appuntite e la fronte dura come un sasso infierire talora con velenosi morsi a danno dei mortali; ma quando il sole meridiano avrà temperato l’afa e la brezza che sale dal fiume avrà rasserenato il gregge, allora sì che potrai appostarti di nascosto sotto quell’altissimo platano che con me si abbevera alla stessa corrente. E appena sedato il furore le pecore si saranno rilassate, scuotendo le fronde del vicino bosco, ti procurerai un batuffolo della lana d’oro che qua e là sia rimasto impigliato nei rami».

Così la semplice e umana canna indicava alla molto dolente Psiche come salvarsi. E quella, istruita per bene, non indugiò a dare ascolto al suo benevolo consiglio, ma seguendolo per filo e per segno, con un facile furto, si ripresentò a Venere col grembo pieno di soffice oro biondo.
E tuttavia non fu soddisfatta la signora neanche dal secondo pegno della seconda prova, ma aggrottando le sopracciglia con una risata amara disse: «Neanche di quest’impresa ignoro l’imbroglione che l’ha compiuta. Ma ora seriamente proverò se sei davvero dotata di animo forte e di saggezza. Vedi tu la cima di quel monte scosceso, da cui vengono giù le torbide acque di un’oscura fonte, che raccogliendosi nell’invaso della vicina valle affluiscono poi alle paludi dello Stige e alimentano i rauchi flutti del Cocito? Di là, dalle profondità della sorgente di quella fonte lassù, attingi un po’ di gelida rugiada in una brocca e portala subito a me!».

Così dicendo, le consegnò un’ampolla di cristallo lavorato, continuando a minacciarla sempre più pesantemente.
E quella, affrettando premurosamente il passo, salì sulla cima più alta del monte, per cercare casomai anche lassù di porre fine alla sua infelice vita. Ma, appena giunse nelle vicinanze di quel giogo, vide la mortale difficoltà di quella grande impresa.
Infatti un’alta rupe d’immane grandezza, scivolosa e d’inaccessibile asperità, eruttava dalle fauci della roccia orride acque che, sgorgando a getti dalle fenditure di un buco sottostante e scorrendo più per il pendio, attraverso il passaggio di uno stretto canale da esse scavato, cadevano a perdita d’occhio nella vicina valle.

A destra e a manca dentro oscure cavità strisciavano, drizzando i lunghi colli, dei draghi feroci con gli occhi fissi in veglia insonne e con le pupille ininterrottamente aperte alla luce. Le stesse acque, passandosi la voce, se ne tenevano alla larga. Infatti, di continuo gridano: «vattene!», «che fai? guarda!», «attenta a quel che fai!», «scappa!» o «passerai un guaio!».
Così, pietrificata dall’impossibilità della cosa, Psiche, benché presente col corpo, coi sensi era tuttavia lontana e, schiacciata dalla mole dell’insuperabile pericolo, non aveva più nemmeno le lacrime per darsi l’estremo conforto.

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Courbet – L’aquila soccorre Psiche

Ma non passò inosservata la pena di quell’anima innocente all’occhio di una buona provvidenza. Infatti, quel regio uccello del supremo Giove, la rapace aquila, prontamente ad ali spiegate venne in suo soccorso e, memore dell’antica obbedienza con cui, guidata da Cupido, aveva portato in volo il coppiere frigio [Ganimede] a Giove, per onorare la potenza del dio e aiutare tempestivamente la sua sposa sofferente, lasciò le alte vie del cielo e, volando dinanzi alla fanciulla, le disse: «Speri tu, ingenua come sei ed inesperta di queste faccende, di poter rubare o anche solo toccare una sola stilla della santissima e nondimeno terribile fonte? Non hai sentito dire che finanche agli dèi e allo stesso Giove fanno paura queste acque dello Stige, e che come voi giurate nel nome degli dèi, così gli dèi sogliono giurare sulla maestà dello Stige? Dalla a me, codesta ampolla!».

E immediatamente ghermitala e afferratala tra le zampe, rapida si librò con la mole delle ali battenti avventurandosi nelle fauci irte di aguzze denti e nelle triplici lingue vibranti dei draghi, e volteggiando a destra e a manca attinse di quell’acqua, che si rifiutava di farsi prendere e la invitava con minacce a ritirarsi senza danno, dicendole che agiva dietro comando di Venere, di cui era al servizio.
E così le fu po’ più facile avvicinarsi ad essa.

Ricevuta così con gioia l’ampolla piena, Psiche la portò a Venere. E tuttavia non le bastò ancora a placare l’animo della dea furibonda. Questa infatti, minacciando maggiori e peggiori guai, con un mortifero sogghigno così le parla: «Devi essere proprio una grande ed esperta maliarda, visto che hai pienamente ottemperato ai miei comandi. Ma, bambolina mia, dovrai fare anche quest’altra cosa. Prendi questo cofanetto – e glielo diede – e va’ subito agli Inferi, alla casa dell’Orco ferale! E poi, consegnandolo a Proserpina, dille: “Venere ti chiede di mandarle un po’ della tua bellezza, quanto basti anche solo per un breve giorno. Ché quella che aveva, l’ha consumata e sperperata tutta, mentre curava il figlio malato”. Ma non tornare troppo tardi, perché io devo, ornata appunto di quella, partecipare a un’adunanza degli dèi».

Allora più che mai Psiche sentì d’essere al colmo della sua sventura e, senza paraocchi, comprese chiaramente d’essere spinta incontro a morte sicura. E come no? – visto che era costretta a scendere al Tartaro e ai Mani coi suoi stessi piedi! E senza più a lungo esitare si diresse a un’altissima torre, decisa a precipitarsi di lassù; credeva infatti di poter scendere direttamente agli Inferi e nel modo più sbrigativo.

Ma la torre subito prese a dire: «Perché, misera, tenti di ucciderti gettandoti giù? perché già ti dai per vinta in questa che è l’ultima tua prova rischiosa, l’ultima tua fatica? Una volta che il tuo spirito si sarà separato dal tuo corpo, andrai di sicuro al profondo Tartaro, ma di là non potrai tornare in nessun modo. Dammi ascolto!

«Non lungi da qui c’è Sparta, nobile città dell’Acaia; tu cerca il Tenaro, che scorre lì vicino, nascosto in luoghi fuori mano. Là s’apre uno spiraglio di Dite, da cui, attraverso le porte spalancate, è possibile vedere una strada inaccessibile. Se in essa, varcata la soglia, t’inoltrerai, ecco per retto sentiero giungerai proprio al Castello dell’Orco. Ma non avventurarti di là, per quelle tenebre, a mani vuote. Tieni invece nell’una e nell’altra una focaccia impastata con vino e miele, e nella tua bocca due monete. E quando avrai percorso buona parte del cammino sulla via della Morte, incontrerai un asino zoppo, carico di legna, con un asinaio simile a lui, il quale ti pregherà di raccogliere e di dargli alcuni pezzi caduti dalla soma. Ma tu senza dire parola, passa oltre.

Psiche-Caronte«Giungerai allora a un fiume morto, che è sotto la giurisdizione di Caronte. Lui subito ti chiederà il prezzo della traversata, come fa con tutti quelli che traghetta sull’altra riva con la sua navicella di tavole fasciate. E già, perché anche tra i morti è viva l’avarizia, né quel Caronte né il padre Dite, che pure è un dio sì grande, fanno qualcosa gratis, ma chi muore povero deve procurarsi il viatico e, se per caso non ha pronto il danaro, nessuno gli permetterà di dare l’ultimo respiro.

«A quello squallido vecchio darai per il tragitto una delle due monete, ma in modo che sia lui con la sua mano a prenderla dalla tua bocca.
Poi, durante la traversata del fiume stagnante, se qualche vecchio morto, nuotando a fior d’acqua e tendendo la putrida mano, ti pregherà di tirarlo su nella barca, tu non lasciarti vincere da una pietà che non ti è consentita.

«Attraversato il fiume, poco più avanti, incontrerai delle vecchie filatrici che ti chiederanno di dar loro per poco una mano, a finire la tela. Ma tu, non la toccare! Ché tutte queste cose, non sono che tranelli di Venere, perché almeno una focaccia ti cada di mano. E non pensare che sia cosa da niente il danno che ne avresti: se ne perdessi una, questa luce del vero giorno ti sarebbe poi per sempre negata!

«C’è infatti un grandissimo cane a tre teste, enorme e terribile, che latrando con le tonanti fauci sui morti a cui non può fare più niente, e inutilmente spaventandoli, monta la guardia dinanzi alla casa vuota di Dite, sempre vigilando sulla soglia degli oscuri atri di Proserpina. Tu, sedatolo col boccone d’una focaccia, facilmente passerai oltre ed entrerai dritta al cospetto di Proserpina, la quale ti accoglierà con benevola ospitalità, tanto che t’inviterà a sedere e pranzare con lei.

«Ma tu siedi per terra e chiedi e mangia un tozzo di pane volgare. Poi, avendo detto perché sei giunta fin lì e preso ciò che ti sarà dato, tornando sui tuoi passi, di nuovo placa la ferocia del cane con la focaccia che ti sarà rimasta e, data a quello spilorcio del barcaiolo la moneta tenuta in serbo, ritrovando le orme di prima, tornerai a questo nostro coro di stelle celesti. Ma più di ogni cosa, questo devi ricordare: di non aprire il cofanetto che porterai, e di non guardarvi dentro, per un eccesso di curiosità volendo spiare il tesoro della bellezza divina che vi è nascosto!»

Fu così che quella torre preveggente esercitò la sua arte divinatoria. E Psiche senza indugiare si diresse al Tenaro e, prese quelle monete e quelle bisacce, imboccò la via degli Inferi, e oltrepassato in silenzio l’asinaio sciancato, e data al barcaiolo la moneta per passare il fiume, ignorando ogni richiesta dei morti che vi nuotavano a fior d’acqua, e respinte le suppliche insidiose delle vecchie filatrici, e sopita con un mozzico di focaccia la rabbia feroce del cane, entrò nella dimora di Proserpina. E, non accettando l’offerta né di una comoda sedia, né di un lauto pasto, ma sedendo umile ai suoi piedi e accontentandosi di un tozzo di pane, le riferì l’ambasciata di Venere.

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Waterhouse – Psiche apre il cofanetto

E subito ricevette il cofanetto riempito in segreto e ben chiuso, e messi a tacere i latrati del cane con l’inganno dell’altra focaccia, e data al barcaiolo l’altra moneta, risalì assai più disinvolta dagli Inferi. E ritrovata e adorata questa nostra candida luce, sebbene avesse fretta di condurre a termine la missione, fu assalita da una temeraria curiosità, e si disse: «Sarei davvero una sciocca se, portatrice della divina bellezza, non ne prendessi neppure un pochino per me, per diventare più piacente agli occhi del mio sposo!».
E così dicendo, aprì lo scrigno.

Ma dentro, ahimé, non c’era niente di niente, nessuna bellezza, ma solo un sonno infernale, uno di quelli veramente dello Stige, che appena scoperchiato la invase e, con una spessa coltre di nebbia, pervase le sue membra e se ne impossessò facendola svenire là, in mezzo alla via.

(Apuleio, Metamorfosi, 6: 9-21)