Santillana – L’ombelico del mare e gli attrezzi per accendere il fuoco

maelstrom

Quanto all’Omphalos, all’ombelico, ci sono volumi e volumi sull’argomento. È l’isola di Calipso, ma è anche il Cariddi dell’Odissea, l’imbuto del Maelstrom della tradizione indoeuropea, il gurges mirabilis che trapassa il globo e finisce nel Soggiorno dei Beati; questo è, naturalmente, nel cielo australe, a Eridu, alla Nave Argo, là dove regna Kronos addormentato, Yama Agastya per gli Indù, Osiride giudice dei morti per gli Egiziani, Ea-Enki per i Babilonesi, Quetzalcoatl per i Messicani – e altri ancora. È là che si perse Ulisse, se crediamo a Dante, è là che Gilgameš si trovò alla «Confluenza dei Fiumi» celesti, in cerca dell’immortalità.

L’ombelico dell’oceano era un vasto gorgo in cui andavano alla deriva i bastoncini che, sfregati, davano il fuoco.

Così narra la favola Salish del Cervo che va a rapire il fuoco.
Ma perché questi bastoncini nel vortice?

Qui si tratta dell’altro vortice, quello cosmico, la Precessione degli Equinozi, che allora conoscevano già, quella che in ventiseimila anni porta l’Ordine del Tempo. È ad essa che si riferisce la figura originaria di Prometeo, Pramantha in India, e i fuochi, non della notte di san Giovanni, ma del passaggio del sole equinoziale da un segno zodiacale al successivo, ogni duemilaquattrocento anni all’incirca: la fine di un «mondo» o di un’era, l’inizio di un’altra.
Permettetemi di ricordarvi di una parola delle nostre parti; la troverete in Agrippa d’Aubigné, ed è proprio della fine di questo mondo che si tratta:

[…] quand les esprits bienheureux
dans la voie de laict auront fait nouveaulx feux.

È in questo momento che, in Messico, Tezcatlipoca accende un nuovo fuoco facendo frullare i suoi bastoncini nel segno dei Gemelli – «e da allora in poi si chiamò Mixcoatl».

Le cose ben presto si complicano (vi chiedo un po’ di pazienza) poiché il fuoco originario di Mixcoatl avrebbe dovuto aver luogo al Polo, e non è chiaro perché nella stessa occasione questo fuoco si accendesse nei Gemelli, come attestano varie cerimonie; ma si può scorgere qui una specie di ambivalenza, o di bilocazione del fuoco sacro che consacra il coluro equinoziale di questo famoso anno Zero, a partire dal quale si contava il tempo, in Mesopotamia e in Cina così come in Messico: il momento solenne in cui il sole dell’equinozio di primavera era situato nel segno dei Gemelli, e quindi anche sulla Via Lattea; e la grande arcata galattica, eretta sull’orizzonte, s’era quasi trovata a coincidere con il grande cerchio o coluro equinoziale. Ciò caratterizza bene lo schema geometrico fondamentale di questa cosmogonia, quale spesso lo incontriamo.

Persino l’elemento proto-pitagorico non manca. Il ritmo del Cervo che «canta» e balla diventa, in un altro racconto del Nord-Ovest (Columbia Britannica, Lower Fraser River) la prodezza del nipote di Picchio che, al momento di tirare con l’arco, intona un canto: e, trovata la tonalità giusta, le frecce che partivano si conficcarono l’una dentro l’altra, incastrandosi, fino a formare un ponte fra terra e cielo.
Autentico tema orfico spesso ripreso, ma anche, come ha notato Sir James Frazer, ultimo ricordo della scalata all’Olimpo nella Gigantomachia.

Ecco dove si va a finire con delle storie apparentemente senza capo né coda. Però, che confusione di idee, voi direte.
Capisco bene: ma non dimenticate che questi elementi sono stati esposti ai rischi della tradizione orale, all’oblio, all’incomprensione. Ma il disordine stesso non fa che accentuare l’autenticità delle componenti, l’incredibile ostinazione di certe immagini a sopravvivere e a sopravviversi, vero deposito sacro di epoche perdute.

arco-imperatori-cinesiPer continuare, l’arco e la freccia si riaffermano come immagini capitali, altre chiavi di volta della teoria, perché sono anch’essi in cielo; l’arco è quello di Marduk, il Giove babilonese, l’arco cantato dal Poema della creazione, con cui egli conquista il potere e fonda l’ordine universale.
Ma si scopre che è anche l’arco che hanno gli imperatori cinesi quando ascendono al trono. Con quest’arco, bisogna in ogni caso «raggiungere» Sirio, colui che – secondo il grande rituale babilonese dell’Akîtu – «misura la profondità del mare».

Su questo sono stati fatti molti altri studi. Ma gli Schlegel, i Guérin, i Gundel, i grandi eruditi che hanno fatto luce su questa uranografia con le loro prodigiose fatiche, spesso si sono rincantucciati ciascuno nella sua provincia, fosse la Mesopotamia, l’India, l’Egitto o la Cina, e hanno istintivamente reclamato per i loro favoriti il privilegio della scoperta, lasciando ad altri la cura di gettare un ponte fra civiltà così diverse.
Vi sono stati anche degli astronomi illustri, che nessuno legge, come Biot e Henseling, il cui sforzo di comparazione si è perduto nel silenzio.

È tuttavia grazie a molteplici concordanze che si sono potute risolvere queste enigmatiche parole. La stella Sirio è stata fonte di fascino sotto parecchie latitudini, e spesso si vedono riaffiorare delle oscure allusioni ai suoi legami col mare – fino in Aristotele e in Plinio.
Sirio sembra essere stata una specie di perno di parecchie linee che si intersecavano, partendo da diverse regioni del cielo. L’allineamento principale era quello che situava Sirio sulla linea che congiunge i poli e che finiva, a Sud, a Canopo, altra grande stella fascinatrice, sede di Yama Agastya per gli Indù, città mitica di Eridu per i Sumeri, Suhayl-la-Pesante per gli Arabi, in quanto segnava il fondo del «mare celeste» dell’emisfero australe.
Gli altri allineamenti congiungevano Sirio ai «quattro angoli del cielo», equinozi e solstizi, che si spostavano impercettibilmente nel corso dei secoli della Precessione, e la linea del Polo Nord passava sulle stelle dell’Orsa una dopo l’altra, come una lancetta su un immenso quadrante.

Sirio-Canopo

Sembrava dunque che queste misure angolari fossero solennemente e minuziosamente verificate nelle grandi occasioni. Si pensava che, grazie a Sirio, la terra fosse saldamente «ancorata alle Profondità dell’Abisso» e «appesa» al cielo settentrionale; grazie a questa stella, si controllava il buon funzionamento dell’Universo.
Tale era, per quanto ne possiamo indovinare noi, il ruolo mitico e cerimoniale dell’Arco degli dèi.

La sola originalità dei Pellerossa, si direbbe, è d’aver messo l’arco nelle mani di una donna. E, per giunta, pigra.
È un lontano ricordo di Ištar, la Seduttrice? Io preferisco pensare che il narratore indiano abbia avuto il suo momento di fantasia. Ce ne sono così pochi e così modesti di tali momenti, in questa poetica rigidamente tradizionale …

Perché, per riprendere il discorso, quanto a quella strana porta che si chiude come una lama di ghigliottina, essa è tutt’ uno con le non meno strane Planctai di Omero, con le Simplegadi degli Argonauti, gli scogli che cozzano tra loro, ma, ancora più lontano nel tempo, nella sua figurazione originaria, verticale, è l’Eclittica che si alza e si abbassa sull’orizzonte nel corso dell’anno, oggetto di innumerevoli rappresentazioni parallele sparse per tutti i continenti, almeno dopo il V millennio.

Mentre i selvaggi, naturalmente – non si trascura di rammentarcelo – non avevano nessun’idea di astronomia.
È senz’altro vero che non ne hanno più. E che quelli che l’avevano, non erano affatto dei selvaggi. Certo, non più di quelli che hanno edificato Stonehenge, e che gli archeologi, fino all’anno scorso, si ostinavano a definire degli «howling barbarians»…

(Santillana, Fato antico e fato moderno)