Psiche lasciata sola, ma non del tutto sola (agitata qual era dalle Furie ostili), ondeggia in un tumulto simile a quello del mare e, benché abbia preso una decisione e sia risoluta nell’animo, tuttavia sul punto di porre mano al delitto ancora esita, incerta e combattuta dai molti sentimenti in lei suscitati dalla sua calamità. Ha fretta e insieme rinvia, osa e teme, si scoraggia e si adira: insomma, in una stessa persona, odia la bestia e insieme ama lo sposo.
Quando però la sera sta ormai per cedere alla notte, si precipita a preparare in fretta e furia il necessario per il nefando delitto. La notte era ormai calata e lo sposo aveva fatto ritorno e, dopo le scaramucce amorose, era caduto in un sonno profondo.
Allora Psiche, fiaccata ormai nel corpo e nell’animo, e tuttavia costretta dal suo crudele destino, si fa forza e, tratta fuori la lucerna e brandito il pugnale, trova un coraggio, più che di donna, avresti detto di maschio. Ma nel buio, appena la prima luce rischiarò il talamo segreto, vide la belva più mite e la più dolce delle bestie: era Cupido in persona, il bello tra gli dèi, bellamente addormentato. La stessa luce che lo illuminava, per la gioia, nel vederlo fremette e il suo brivido illuminò la punta del sacrilego pugnale.

A tal vista atterrita, Psiche fuori di sé, impallidì. E trepidante la sposina cadde seduta sui calcagni e voleva sì affondare il ferro, ma nel suo petto. E l’avrebbe fatto, se il ferro restio a tale scempio non le fosse sfuggito dalla mano temeraria, schizzando lontano.
Era abbattuta ormai, disperata, ma ecco il prodigio: la vista del bel volto divino la risuscitava. E più le tornavano le forze, più osava guardare quel volto. Ed ecco, Psiche vide i capelli d’oro, vide la chioma di stille d’ambrosia. E vide il collo bianco come latte, vide la via da cui discende la luce delle stelle, fin giù sulle guance di porpora vide, la rianimata Psiche vide gli anelli che annodavano le trecce disciolte, alcune cadenti sul petto, altre sulle spalle, vide la simmetria dei colori dell’arcobaleno, per un momento, vide il capo del gomitolo della luce stessa. E impallidì pure la luce della lucerna.
Sugli omeri del dio alato, ecco apparire nel loro fulgore due candide ali gocciolanti di rugiada. Erano immobili, e tuttavia sulle loro punte danzavano inquiete un instancabile giro di danza piume tenere e delicate. Il resto del corpo senza peli e luminoso era di un tale splendore che Venere non si sarebbe pentita d’averlo generato.
Ai piedi del letto giacevano arco, faretra e frecce, le benevole armi del grande dio. Psiche che sazia ancora non era, e che anzi era ancor più curiosa, guardava e toccava le armi dello sposo. Guardava e dalla faretra tirò fuori una freccia e, premendovi il dito sulla punta affilata, finì che, facendo un movimento brusco, si punse e a fior di pelle sbocciarono come rugiada goccioline di rosso sangue.
Fu così che Psiche, ignara, con le sue proprie mani cadde nell’amore di Amore. Psiche cadde e, più giù cadeva, più si chinava – che stranezza! – a cercare laggiù le labbra socchiuse di Cupido per stamparvi un bacio e poi un altro, un altro ancora, ancor più dolce, ma sempre attenta a non farlo svegliare.
Era così presa da sì grande piacere che, mentre si travagliava nella mente sua ferita, quella lanterna, sì quella perfida lanterna invidiosa che non vedeva eppure smaniava di vedere, quasi anch’essa desiderasse toccare e perfino baciare un corpo così bello, dalla punta della sua fiamma vomitò una stilla d’olio bollente e la fece cadere sulla spalla del dio.

O audace, o temeraria lucerna, o cattiva serva d’Amore, tu bruci nientemeno il dio di tutti i fuochi. Tu che di certo fu un amante a fabbricarti, per allungare fino a notte inoltrata la vista dei suoi oggetti di desiderio!
Ed ecco, da te scottato, sobbalzò il dio e, visto il rovinoso risultato del giuramento tradito, in un istante, volò via in silenzio, via dai baci e dalle carezze della sua infelicissima sposa.
E Psiche, pur avendo prontamente afferrato con tutt’e due le mani il piede destro del dio che si alzava dal letto, misero appiglio per restare aggrappata a quello che stava per spiccare il volo, ultima propaggine del compagno sospeso tra le nuvole, alla fine stanca si abbatté al suolo.
Il suo divino amante, non volendo abbandonarla che giaceva così a terra, in volo raggiunse un vicino cipresso e dall’alto dei suoi rami, profondamente commosso, così le parlò: «Io, ingenua Psiche, proprio io, immemore delle istruzioni di mia madre Venere che ti voleva asservita alle brame di un misero e abietto uomo e mi aveva ordinato di spingerti a infime nozze, proprio io volai verso di te da amante. Ma con troppa leggerezza ho agito, lo so; io, quel famoso sagittario, me stesso finii per colpire con la mia freccia e ti feci mia compagna, perché tu dovessi poi prendermi per una bestia e con la spada mi tagliassi il capo – questo capo i cui occhi sono di te innamorati! Io pensavo che non saresti mai giunta a tanto, e di ciò spesso benevolmente ti ammonivo. Ma quelle tue egregie consigliere mi pagheranno subito il fio di questo loro pernicioso magistero; in quanto a te, ti punirò soltanto fuggendo via».
E dette queste parole, con le ali in alto subito si levò.
E Psiche prostrata al suolo, seguendo con lo sguardo fin dove poté il volo dello sposo, si affliggeva e si torturava in disperati lamenti. Ma poi, quando lo sposo fu portato via dal remeggio delle sue piume e sparì alla sua vista, si gettò giù a capofitto dalla riva di un fiume vicino.
Il fiume tuttavia, in onore certo del dio che è solito infiammare anche le acque, e temendo anche per sé, subito gentile con un flutto benigno la depose sulla sua riva erbosa e fiorita.
Per caso, su quella riva del fiume era seduto il rustico dio Pan, e stava stringendo tra le braccia la dea dei monti Eco e le insegnava a modulare ogni sorta di voci; lì, presso la riva, libere al pascolo, lascive vagavano qua e là delle caprette, brucando la chioma del fiume.
Il dio caprino, chiamata a sé la ferita e disfatta Psiche, di cui non ignorava la vicenda, così con dolci parole la confortava: «Graziosa fanciulla, sono sì, è vero, un rustico e pecoraio, ma grazie alla mia avanzata vecchiaia sono stato istruito da molte esperienze. Ma se il fiuto non mi tradisce (ché è quello che gli uomini chiamano divinazione), da codesto tuo passo titubante e più volte vacillante, dall’eccessivo pallore del tuo corpo e dai frequenti sospiri, e soprattutto dai tuoi occhi sofferenti, vedo che patisci le pene di un amore troppo grande. Ascolta me, dunque: non porre fine ai tuoi giorni, non precipitare ancora più giù! Smettila di piangere e deponi il tuo cruccio, e piuttosto pregando elevati e adora Cupido, il più potente degli dèi, e – delicato e lussurioso giovinetto qual è – con blandi voti renditelo propizio».
Poi che il dio pastore ebbe così parlato, senza rispondergli nulla, ma limitandosi a riverire il nume con un saluto, Psiche seguitò per la sua strada. Ma, quando ebbe percorso un buon tratto di via, verso sera, non so per quali cammini, giunse in una città, nella quale regnava il marito di una delle sue sorelle.
Essendo venuta a saperlo, Psiche fece annunziare alla sorella la sua presenza in città; subito introdotta, dopo gli abbracci e i saluti di rito, richiesta del motivo della sua venuta, così prese a dirle: «Tu ben ricordi il vostro consiglio, quello cioè di uccidere con un pugnale a doppio taglio la bestia che, col mentito nome di marito, giaceva con me, prima che essa inghiottisse me misera nella sua vorace gola. Ma, appena con la mia complice lucerna (come avevamo concordato) gli illuminai il volto, fu un meraviglioso e divino spettacolo che ammirai: il figlio in persona della dea Venere, dico Cupido in persona, immerso in soave sopore! Ma, mentre colpita dalla vista d’una tale bellezza e turbata da un assalto di voluttà mi tormentavo per l’impossibilità di goderne, per un perfido caso la lucerna schizzò olio bollente sulla sua spalla. E quello per il dolore, balzato su dal sonno, vedendomi armata di ferro e di fuoco, “tu – esclamò – per codesto tuo terribile misfatto vattene subito dal mio letto e portati via le tue cose; sarà tua sorella (e qui fece il tuo nome) quella che io sposerò in legittime nozze”. E subito ordinò allo Zefiro di soffiarmi via dalla sua casa».
Non aveva ancora Psiche finito di parlare, che quella, agitata dai pungoli di un’insana libidine e di una perversa invidia, con una ben macchinata bugia ingannando il marito, dicendo d’aver avuto notizia della morte dei genitori, subito s’imbarcò su una nave e andò dritto alla solita rupe e, sebbene spirasse tutt’altro vento, preda ormai di una cieca illusione e gridando «prendimi, Cupido, sono la tua degna sposa! e tu, Zefiro, prendi la tua signora!», con un grandissimo salto si precipitò nel vuoto.
Ma neanche morta ci giunse, nel posto che sperava. Infatti, sbalzata con le membra qua e là sulle punte delle rocce e, come si meritava, con le viscere dilaniate morì, offrendo un facile pasto agli uccelli e alle belve.
E non tardò il castigo anche della seconda vendetta. Infatti Psiche, rimessasi in cammino, errando giunse in un’altra città, dove similmente abitava l’altra sorella. E anche questa, allo stesso modo indotta in inganno dalla sorella più piccola, ed emula della sorella maggiore nella scellerata illusione di andare a nozze, si affrettò alla rupe e precipitò nello stesso esito mortale.
(Apuleio, Metamorfosi, 5: 21-27)