Laing – Una coscienza di sé insicura

La «coscienza di sé», nella persona ontologicamente insicura, compie una duplice funzione:
1) È un modo di raggiungere la certezza che si esiste, e che gli altri esistono. Kafka dimostra ciò chiaramente nel suo racconto Dialogo col devoto. Il devoto parte da una posizione esistenziale di insicurezza ontologica: egli dichiara: «Non c’è mai stata una volta che io mio sia sentito convinto, dall’interno di me stesso, di essere vivo». Il bisogno di conquistare la convinzione di essere vivo e della realtà delle cose è perciò il problema di fondo della sua vita; e il suo modo di cercare di raggiungere questa convinzione consiste nel sentirsi un oggetto nel mondo reale, ma, visto che il suo mondo è irreale, egli deve essere un oggetto nel mondo di qualcun altro, perché agli occhi degli altri gli oggetti sembrano essere reali, e addirittura sereni e belli. Almeno « … deve essere così, perché spesso sento la gente parlarne come se lo fossero». Di qui la sua confessione: « … non arrabbiarti se ti dico che lo scopo della mia vita è di fare in modo che la gente mi guardi» (il corsivo è mio).

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Kandinskij – Unbroken line

Un altro fattore è la discontinuità dell’io temporale. Quando vi è incertezza dell’identità nel tempo si tende a ricorrere, per identificarsi, a mezzi spaziali, e forse questo aiuta a spiegare perché sia tanto spesso importante essere visti. Ma a volte si può ricorrere più volentieri alla consapevolezza di sé nel tempo. Questo è particolarmente vero quando il tempo viene vissuto come una successione di momenti: allora la perdita di un segmento della serie temporale di momenti, dovuta a disattenzione per il proprio io temporale, può apparire come una catastrofe.

Dooley (1941) fornisce vari esempi da cui appare che questa consapevolezza di sé temporale ha origine da una «lotta contro la paura dell’obliterazione» e da un tentativo di salvare la propria identità «dal pericolo di essere inghiottiti, schiacciati, e di perdere … l’identità».
Una delle sue pazienti dice: «L’altra sera, allo Spettacolo sul Ghiaccio, mi sono come smarrita. Ero tanto assorta a guardare che mi ero dimenticata che ora fosse, e non sapevo più chi ero e dove stavo. Quando mi sono resa conto che ero stata per un bel po’ senza pensare a me, mi sono spaventata a morte, e ho avuto la sensazione di irrealtà. Non mi devo mai dimenticare di me stessa, neanche per un minuto. Guardo l’orologio e mi tengo occupata, altrimenti non so più chi sono».

2) In un mondo pieno di pericoli, essere un oggetto potenzialmente visibile equivale ad essere costantemente esposto al pericolo. Perciò la consapevolezza di sé può portare all’apprensione di essere potenzialmente esposti a rischi di ogni genere per il semplice fatto di essere visibili. La difesa più ovvia contro questo pericolo è di rendersi invisibile in qualche modo.

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Kandinskij – Tree fall

Nel caso pratico la questione è quindi sempre e necessariamente complessa. Il devoto di Kafka ha come scopo della sua vita di fare in modo che gli altri lo guardino, per alleviare la sua condizione di spersonalizzazione, di de-realizzazione, di morte interiore. Ha bisogno che gli altri lo vedano come una persona reale e viva, perché non è mai riuscito a convincersi di essere tale dall’interno di se stesso.

Ciò implica comunque una certa fiducia nella qualità benevola della percezione dell’altra persona, fiducia che non sempre è presente. Non appena l’individuo prende coscienza di qualche cosa, questa cosa si fa irreale, anche se poi egli può dire: «Mi sembra sempre che si tratti di cose che prima erano reali, ma che ora svaniscono».
Non sorprenderà constatare in una persona di questo genere una certa sfiducia riguardo alla consapevolezza che gli altri possono avere di lui. Non deve forse apparirgli naturale, dopo tutto, che essi abbiano di lui la stessa «coscienza fuggevole» che egli ha di loro? E come trovare nella loro coscienza, anziché nella propria, la convinzione di essere vivo? Che, anzi, spessissimo, la situazione si rovescia del tutto, e l’individuo ha l’impressione che il rischio maggiore sia proprio essere oggetto della coscienza altrui.

Il mito di Perseo e della testa di Medusa, il «malocchio», tutti i deliri riguardanti il raggio della morte e simili sono, io credo, riconducibili a un timore di questo genere.
Infatti, da un punto di vista biologico, lo stesso fatto di essere visibili espone gli animali al rischio di essere aggrediti dai nemici; e nessun animale è senza nemici. Perciò essere visibili è un rischio biologico fondamentale, mentre essere invisibili è una difesa biologica altrettanto fondamentale.
Tutti noi ricorriamo a qualche genere di mimetizzazione.

(Laing, L’io diviso)