Dopo l’amplesso, è detto, Enkidu «non aveva più forze».
Non era più la Forza [della Natura Selvatica] che era stato fino a un attimo prima d’essere «sedotto». Non era più l’uomo dei boschi. Non era più il compagno delle bestie selvatiche, ma in compenso aveva ricevuto in dono dalla donna «metà della sua veste».

Abbiamo detto: Gilgameš ed Enkidu sono i due «estremi irriducibili» l’uno all’altro. Due «forze», ognuna orientata al suo «polo», abituata al suo habitus. L’una cioè a permanere smodatamente aperta (impotente a richiudersi) e l’altra ermeticamente chiusa (restia ad aprirsi) al «consumo sessuale». L’una vorace, l’altra astinente.
So che qualcuno direbbe, e non a torto, che è tutta una questione di sfinteri. Ma proprio per questo, chi lo dice non dovrebbe sottrarsi all’indovinello della Sfinge, se non altro perché «è scritto» nelle parole.
Perché se è a parole, e solo a parole, che intende «curare» Gilgameš, non può continuare a ignorare che sfinge e sfintere sono due nomi della stessa radice. Dal verbo sfingo (σφίγγω) = stringere, costringere, legare, serrare – abbiamo la Sfinge che «trattiene» la sua sapienza e non la «rilascia» che in forma succinta ed enigmatica, ed abbiamo lo sfintere, ossia il muscolo della continenza e dell’incontinenza.
Come dunque disciplinare gli sfinteri dell’incontinente Gilgameš, tocca alla sua stessa Sfinge dirlo. Tocca ad Aruru, e solo a Lei che l’ha «aperto», dire in poche, succinte ed enigmatiche parole come dove e quando «richiuderlo».
Aruru è la Sfinge di Gilgameš: Colei che ne ha plasmato l’«argilla» con le sue proprie mani, Colei che perciò ne sa la Regola, Colei che sa come «regolare» apertura e chiusura delle sue valvole.
Muscoli, sì – è una questione di muscoli. Di legature e di scioglimenti. Di contrazioni e distrazioni delle nostre «bocche». Bocca Aperta dovrebbe imparare ogni tanto a tacere. E Bocca Muta, a sua volta, decidersi a parlare.
Nell’impossibilità di decidere una volta per sempre se originariamente apparteniamo al Silenzio o al Rumore: ecco, in sintesi, dove sta il problema posto ad Aruru.
Mia cara Sfinge, le dicono gli altri dèi, sei tu che devi prendere una decisione! Invece di affliggere un popolo intero con la carestia, trovala tu una «cura» per moderare Gilgameš!
Non sei tu la Temperanza?
E allora su, vediamo come te la sbrogli!
Se la sbroglia, abbiate la cortesia di credere che non vi sto prendendo in giro – sì, se la sbroglia con un gioco di parole.
La Sfinge crea lo zikru di Gilgameš, crea il «segno-esca», a cui affamato com’è di prede, Gilgameš non può fare a meno di abboccare! Crea l’«indovinello» che lo obbliga a ripercorrere, a sua insaputa, il cammino che lui stesso ha fatto dalla Foresta alla Città [di Uruk]. Il Cammino che adesso sta a lui ri-tracciare per dare un «dove» all’indovinello.
Poiché è con tutto, indistintamente, che Gilgameš si accoppia, vorace com’è, non potrà sottrarsi alla volontà di «consumare» anche l’«estremo a lui irriducibile», il suo «polo» opposto.
Basta fargli giungere notizia che da qualche parte c’è un «cibo» di cui non si è ancora sfamato.
Il goloso, bisogna prenderlo per la gola: si tratta, ahimé, di fargli venire l’appetito per quello che poi scoprirà essere il suo boccone amaro.
Non si può «socializzare» un Pantagruele allo stato puro. Bisogna che un monaco astinente come Rabelais se l’«inventi», per non soccombere all’anoressia perpetua.
È la Regola della Sfinge, la Regola di Aruru – non sono io che me la invento, è la mia Sfinge che me l’ha «as-segnata».
Mi ha dato il mio «doppio». Uno zikru, un «dire».
Mi ha dato la Metafora senza segni, quando mi ha «creato» da un pugno di argilla. Ma quando il popolo è andato dagli dèi a protestare, mi ha dato il Segno per assoggettarmi alla Metafora.
Mi ha dato il «segno della croce», per esempio.

Ed ecco, tra i «segni» del mio alfabeto immaginario, mi è giunta notizia di un «segno» analfabetico.
Un segno «forestiero» che, a quanto si dice, vive tuttora nella Foresta Senza Memoria, un segno sprovvisto finanche di un minimo di memoria immaginaria.
Me n’è giunta notizia, ma non ne ho l’immagine.
Mi è giunta notizia di un Senza Immagine. E la mia Sfinge incalzando mi ha detto: Prova a immaginarlo!
Le palpebre sono sfinteri dell’immaginazione.
E visto che tu divori tutto ciò che i tuoi occhi incontrano, mio caro Gilgameš, prova a ingoiare anche quel certo «rospo» di cui hai sentito soltanto una voce. Appena un «sussurro» ti è giunto all’orecchio, solo un «Sentito Dire»! Dai, mangia anche questo «frutto proibito». Questo frutto vietato agli sfinteri dei tuoi occhi!
Avete «visto» soltanto una voce!
Era la voce della Sfinge che vi entrava per la muscolatura dell’orecchio, e dalla testa vi discendeva nel cuore. Perché solo il cuore poteva aiutarvi a immaginarla, la vostra divina Sfinge. Solo nel Quadrato del Cuore v’era dato disegnare la Metafora concepita in paradiso. Solo appeso ai quattro angoli del Cuore Umano, il vostro Disegno Immaginario poteva prendere forma.
Ma non avete «visto» che una voce!
(Deuteronomio, 4: 12)
Di quella voce non ci sono «equivalenti immaginari» che nei catechismi degli idolatri. La sua «menzione», il suo zikru, il «segno» della sua assenza agli occhi, ammette solo «valenze simboliche».
L’Altro, l’«irriducibile» a una qualsiasi identificazione immaginaria, quello che si sottrae a ogni «copula», non è lui il Celibe, ma Gilgameš l’«incontentabile», quello ai cui sfinteri nessun «cibo» è disprezzabile, perché sono sempre aperti ad altro con cui «copulare».
Bene! quell’Altro lo fosti pure tu quando eri forestiero di quella Foresta dove adesso alloggia Enkidu. E allora dimmi: con quale esca possiamo noi attirarlo in Città? A quale «cibo» tu credi che non saprà resistere?
A sua insaputa, Gilgameš è chiamato a tracciare lui il Cammino che lui stesso ha percorso, la strada che lui ha fatto per venire in Città.
Portategli una donna – dice. – E vediamo se le resiste!
Allo stesso modo Pantagruele al suo «creatore» Rabelais avrebbe detto: Prova ad assaggiare il mio stile di vita, e vediamo se insisti a recitare il rosario, la sera prima di andare a letto!

È un espediente antico.
Lo ritroviamo in tutte le «tentazioni di sant’Antonio».
Per sondare la sincerità della follia di Amleto, lo si tenta con una donna. Per sincerarsi della fede di Faust, Mefistofele non esita a procurargli «la più bella del Reame».
E questo perché, direbbe Mastro Dante, la «lussuria» è il più ingenuo dei nostri «peccati». La «tensione alla luce» (questa è, alla lettera, la lux-uria, la «luce che brucia») è nella nostra «radice vegetale», nel nostro midollo spinale.
La «lussuria» ci apre gli occhi sul mondo. Ci «costringe» alla posizione eretta, a emergere sopra gli altri alberi, a prendere il sole che rubiamo agli altri «sovrascrivendoci» ad essi.
Gilgameš è un lussurioso Albero che svetta sulla Foresta. Lui si crede il Re di Uruk, ma è ancora troppo «forestiero» per essere socialmente compatibile. Gilgameš parla la lingua dei suoi appetiti, e solo quella. E soprattutto non divide con nessuno la sua mensa.
Non fa all’amore che con le sue «prede».
Gilgameš è un predatore. Mangia però solo lui. E questo non va. Bisogna che «vomiti». Deve ingoiare un boccone amaro, per «guarire». Deve, a sua insaputa, farsi la bua cadendo nell’indovinello della sua Sfinge.
Né più né meno di Edipo, deve trovare una risposta sintetica.
Metà della sua veste. Questa è la risposta enigmatica che a questo punto dà il Narratore antico.
Narra infatti che, dopo l’amplesso, la Donna vestì l’ignudo di «metà della sua veste». E che, così vestito, così «mezzo civilizzato» lo condusse poi in Città ad assaggiare il pane e la birra.
Tra i due «estremi irriducibili» Gilgameš ed Enkidu, entrambi alle prese con gli «istinti della Foresta», tra il Vorace e l’Astinente, tra Bocca Aperta e Bocca Muta, tra incontinenza e anoressia sessuale, il Narratore antico ci manda a dire che non c’è che un «mezzo»: solo una mezza veste della Donna.

Perché la Donna è tutte le mediazioni possibili e immaginabili tra quei due «estremi»: è, per es., preda della voracità di Gilgameš, ma insieme anche predatrice della verginità di Enkidu.
La Donna è insieme la Sposa fedele di Picchio, ma anche la Sciocca che cede alle lusinghe e alle menzogne di Volpe.
Tanti racconti … ma sono sempre le stesse «tentazioni di sant’Antonio». Un «sussurro» giunge all’orecchio del Santo. Un fruscio gli tocca i nervi. Una piuma volteggia nel Vento. Dice che è caduta dal vestito di una Cicogna, ma chissà se è vero.
È vero solo questo: che si tratta di un racconto, e che il racconto non è che un grano del rosario (dhikr), nient’altro che un gioco degli infiniti giochi di parole, dette o scritte l’una sull’altra.
Solo un gioco di parole può curare Gilgameš, e solo se Gilgameš si lascia prendere dalla magia dei segni, e in particolare di quel segno in cui si sente «menzionato».