Platone – La vera Terra

colonne-dercole[…] Credo – disse Socrate – che la Terra è qualcosa di per sé di molto grande e che noi, dal Fasi alle colonne d’Ercole, abitiamo soltanto una sua piccola parte; e abitiamo intorno al mar Mediterraneo come formiche o rane intorno a una palude, mentre molta altra gente abita altrove in molti altri luoghi simili a questo.
Vi sono infatti da ogni parte molte cavità intorno alla Terra, assai diverse l’una dall’altra così di forma come di grandezza, nelle quali confluiscono insieme l’acqua, la nebbia e l’aria; ma essa, la vera Terra, si libra pura nel cielo puro dove sono le stelle e che la maggior parte di coloro che si occupano di queste cose chiama etere; e l’acqua e la nebbia e l’aria sono un sedimento di questo etere, e insieme si riversano in continuazione nelle cavità della Terra.

Ora, noi che abitiamo queste cavità, non ce ne accorgiamo, e crediamo di abitare in alto sopra la Terra: allo stesso modo di uno che, abitando in mezzo alla profondità del mare, si immaginasse di abitare sulla superficie, e vedendo, attraverso l’acqua, il Sole e le altre stelle, credesse cielo il mare; e non essendo mai giunto, per sua inerzia e debolezza, sulla superficie del mare, non avesse mai osservato, come avrebbe potuto emergendo dal mare e levando su il capo verso le regioni che abitiamo noi, quanto queste sono più pure e più belle di quelle di chi abita nel mare, e non ne avesse mai neanche sentito parlare da altri che le avesse vedute.

Ebbene, anche a noi, credo, è capitato precisamente lo stesso: ché, mentre abitiamo in una cavità della Terra, crediamo di abitare in alto sopra di essa; e l’aria la chiamiamo cielo perché ci pare che attraverso questa, quasi fosse cielo, facciano loro cammino le stelle.
Ed è, ripeto, proprio la stessa cosa: anche noi, per nostra debolezza e inerzia, non siamo capaci di passare attraverso l’aria fino alla sua sommità; e infatti, se qualcuno riuscisse a spingersi fin su all’estremo lembo dell’aria, o messe le ali vi giungesse volando, costui vedrebbe, levando il capo fuori dell’aria, allo stesso modo che qui da noi i pesci levando il capo fuori del mare vedono le cose nostre, così vedrebbe anche le cose di lassù; e se la natura sua fosse capace di sostenere codesta visione, riconoscerebbe che quello è il vero cielo, quella la vera luce e la vera Terra.

E in verità questa Terra nostra e le pietre e tutta quanta la regione che noi abitiamo, sono guaste e corrose come le regioni di dentro il mare sono guaste e corrose dalla salsedine; e nel mare non nasce cosa alcuna che abbia pregio, e nulla v’è, diciamo pure, che sia perfetto, bensì vi sono scoscendimenti e sabbie e fango senza fine, e pantani dovunque sia anche Terra, cose insomma che neppure sono da mettere a confronto con le bellezze di qui; e a loro volta le bellezze di lassù anche meglio dovranno apparire di gran lunga superiori a queste nostre di qui […]

palloneDicono che la vera Terra a chi la guardi dall’alto ha l’aspetto delle nostre palle di cuoio a dodici pezzi, iridescente e come intarsiata di diversi colori; e di codesti colori perfino quelli che adoprano i pittori qui da noi sono immagini appena.
E tutta quanta la Terra lassù è colorata di colori siffatti, e assai più rilucenti e più puri di questi di qui; e parte infatti è porporina, di meravigliosa bellezza, parte ha lo splendore dell’oro, parte, tutta quella ch’è bianca, è più bianca del gesso e della neve; e così dico di tutti gli altri colori che la colorano nel rimanente, che sono anche di più e più belli di quanti mai noi ne abbiamo veduti.

E le stesse cavità della Terra, ripiene come sono di acqua e di aria, presentano lassù un loro colorito particolare; cosicché, rilucendo ancor esse in mezzo all’iridescente varietà di tutti gli altri colori, la superficie della Terra appare alla vista come un’unica ininterrotta iridescenza.
Analogamente a questo suo aspetto crescono ivi i suoi prodotti, e alberi e fiori e i loro frutti; e così ugualmente le montagne e le pietre vi sono levigate e trasparenti, e quindi i loro colori hanno più vivo splendore; e di codeste pietre e montagne, anche quelle pietre che qui da noi hanno sì gran pregio, non sono che frammenti, sarde diaspri smeraldi e altre simili; e insomma non c’è niente lassù che non sia della stessa vista di queste nostre gemme e anche più bello di queste.

E la ragione è che lassù codeste pietre sono pure, e non corrose né guaste, come queste di qui, da putredine e da salsedine a cagione dei sedimenti che qui confluiscono e posano, e che alle pietre e alla Terra, come pure agli animali e alle piante, ingenerano deformità e malattie.
La stessa Terra riceve bellezza da tutti questi ornamenti, come anche dall’oro e dall’argento e da tutti gli altri metalli di tal genere; tanto più che qui, per loro propria e naturale disposizione, si vedono allo scoperto, e ce n’è gran quantità, e sono grandi e disseminati da ogni parte; cosicché a mirarla codesta Terra è davvero uno spettacolo di spettatori beati.

E vi sono esseri viventi e molti e di specie diverse, e anche uomini; e gli uomini abitano alcuni verso l’interno della Terra, altri sulle rive dell’aria come noi sulle rive del mare, altri in isole non lontane dal continente e circondate tutt’intorno dall’aria; e, in una parola, ciò che per noi, cioè, dico, per la consuetudine nostra, è l’acqua e il mare, per quelli di lassù è l’aria, e ciò che per noi è l’aria, per costoro è l’etere.
E le stagioni hanno ivi una tale temperanza che non vi sono ammalati; e gli uomini non solo vi campano assai più tempo che qui, ma anche, per la finezza della vista, dell’udito, dell’intelligenza e in genere di tutte le altre facoltà, sono alla stessa distanza da noi che la purezza dell’aria dalla purezza dell’acqua e la purezza dell’etere da quella dell’aria.

Vi sono inoltre boschi sacri agli dèi e templi in cui gli dèi abitano realmente; e vi sono oracoli e divinazioni e contatti diretti con gli dèi, e insomma personali comunioni di essi stessi, gli uomini, con essi stessi, gli dèi.
E anche il Sole, la Luna e le stelle si vedono da codesti uomini direttamente quali sono in realtà; e così essi godono di ogni altra beatitudine che è conseguenza delle cose sopra dette […]

fiume-fangoDentro la Terra poi, tutt’intorno, e in corrispondenza alle sue cavità, sono molte regioni, alcune più profonde e più aperte di questa che abitiamo noi, altre più profonde ma con minore apertura, e ce n’è di quelle che hanno minore profondità di questa nostra e sono più estese.
Tutte queste regioni sono perforate in più parti da sotterranei ora più stretti ora più larghi che comunicano fra loro; e vi sono appunto vie di comunicazione onde scorre molta acqua da una regione all’altra come da un bacino in altro bacino; e vi sono sotto la Terra smisurate masse di fiumi perenni e di acque calde e fredde, e molto fuoco, e grandi fiumi di fuoco, e molti anche di liquido fango, ora più chiaro ora più limaccioso, come in Sicilia quei fiumi di fango che scorrono davanti la lava, e la lava stessa.

E di codesti fiumi si empiono man mano tutte le regioni, secondo che in ogni regione si riversi volta a volta il flutto delle correnti. E tutte queste acque le agita in su e in giù come una specie di altalena che è dentro la Terra.
E questa altalena è dovuta, io credo, a questa cagione. Una delle voragini della Terra, oltre che fra tutte le altre grandissima, anche attraversa la Terra tutta quanta da un’estremità all’altra; ed è quella voragine di cui parla Omero quando dice «lungi sotterra dove profondissimo un baratro s’apre», e che anche altrove e Omero e molti altri poeti hanno chiamato Tartaro.

Di fatti in questa voragine confluiscono tutti i fiumi, e da questa di nuovo tutti quanti rifluiscono fuori; e ognuno di questi fiumi diviene di volta in volta della stessa natura della Terra in cui si trova a scorrere.
Ora, la ragione di siffatto confluire e rifluire di tutte le fiumane dal Tartaro è questa, che laggiù tutto questo umore non ha né fondo né base; e quindi oscilla e ondeggia in su e in giù, e anche l’aria e il fiato che gli sono d’attorno fanno lo stesso, perché sono tratti a seguirlo sia quando si spinge verso le regioni della Terra che sono dalla parte di là, sia quando si spinge verso le regioni di qua; e, come accade di chi respira che il fiato sempre va e viene fluendo senza interruzione, così anche là questo fiato che oscilla insieme con l’umore produce venti terribili e sterminati entrando e uscendo.

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Hieronymus Bosch – Tartaro

Quando dunque la massa d’acqua si ritrae verso la regione che la gente, come sai, chiama giù in basso, ecco che si riversa attraverso la Terra in quei luoghi lungo le correnti che sono da quella parte, e le riempie come riempiono i loro canali quelli che attingono acqua; e quando poi ricede di là e rompe dalla parte nostra, allora empie le fiumane che sono di qua; e queste, come quelle, riempite, scorrono per i loro condotti attraverso la Terra e, giunte in quei luoghi ai quali ognuna si è aperta la sua via, formano mari e laghi e fiumi e fonti; o poi di lì nuovamente si sprofondano giù sotto la Terra, e, dopo aver percorso, quale regioni più estese e di più, quale meno estese e di meno, si riversano di nuovo nel Tartaro, alcune molto più giù del punto da cui l’impeto dell’altalena le sospinse in alto, altre meno, ma tutte sboccano in un punto più basso di quello da cui sgorgarono; e ce n’è che sboccano dalla parte opposta a quella da cui ruppero fuori, altre dalla stessa parte; e ce n’è di quelle che, dopo fatto addirittura tutto intorno il giro della Terra, rivolgendosi intorno ad essa o una o più volte a modo di spirale come fanno i serpenti, discese il più possibile in giù, imboccano di nuovo nel Tartaro.

Ed è possibile scendere giù in direzione di una parte e dell’altra fino al centro; ma non oltre il centro; perché, per ciascuna delle due serie di fiumi, viene a trovarsi in salita quella parte che discende al centro dal lato opposto.

Di questi fiumi ce n’è parecchi altri e grandi e di natura diversa; ma, fra questi molti, ce n’è quattro, dei quali il maggiore, e che scorre tutto intorno alla Terra più lontano dal centro, è quello chiamato Oceano.
acheronteDirimpetto a questo, e scorrente in senso contrario, c’è l’Acheronte, il quale attraversa luoghi deserti e poi inabissandosi, come sai, sotto la Terra, giunge alla palude Acherusiade: qui convengono la più parte delle anime dei morti, le quali, dopo rimaste colà quello spazio di tempo che a ciascuna è destinato, alcune più lungo altre più breve, sono rimandate di nuovo nel mondo a rigenerarsi in forme di esseri viventi.

Un terzo fiume scaturisce nel mezzo tra questi due, e vicino alla sua scaturigine dilaga in un luogo ampio e riarso da molto fuoco, e fa una palude più vasta del nostro mare, ribollente d’acqua e di fango; di là poi muove in giro, torbido e fangoso, e serpeggiando per entro la Terra passa per altri luoghi finché giunge a un’estremità della palude Acherusiade, ma senza mescolare con quella le sue acque; e, dopo fatti più giri a spirale sotto la Terra, imbocca nel Tartaro, ma in un punto più basso della sopraddetta palude.
Questo fiume è quello chiamato Piriflegetonte, di cui sono come frammenti quelle colate di lava che erompono fuori sopra la Terra, dovunque trovino una via d’uscita.

Dirimpetto a questo scaturisce il quarto fiume; il quale dapprima dilaga, come dicono, in una regione orrida e selvaggia e che ha dappertutto il colore del ciano, ed è quella regione che chiamano Stigia; e la palude che fa questo fiume imboccandovi la chiamano Stige.
Questo fiume, dopo imboccato in codesto luogo e attinte qui nell’acqua certe sue orribili forze, si sprofonda sotto Terra, e girando a spirale scorre in senso contrario al Piriflegetonte e con esso s’inoltra nella palude Acherusiade dal lato opposto.
Neppur questo fiume mescola con altra acqua le sue acque; e anche questo, dopo girato in cerchio, si getta nel Tartaro dal lato opposto al Piriflegetonte. Il suo nome, come dicono i poeti, è Cocito.

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La pesatura delle anime dei morti egizi

Questa dunque è la forma e la natura della Terra. Ora, quando i morti giungono al luogo dove è menato ognuno dal suo demone, per prima cosa si sottomettono al giudizio; e si distinguono coloro che hanno vissuto bene e santamente e quelli che no.
E quelli a cui si riconosca aver tenuta nella vita una via di mezzo, giunti alle rive dell’Acheronte, salgono su quelle navicelle che sono là appunto per loro, e arrivano così alla palude Acherusiade; e qui dimorano, e scontando le loro pene si purificano e sciolgono delle colpe se mai ne hanno commesse, e delle buone azioni ricevono premi ognuno secondo il suo merito.

E quelli che siano riconosciuti incapaci di espiazione per la gravità dei loro peccati, come chi abbia commesso molti e gravi sacrilegi, e uccisioni inique e molte e ad onta delle leggi, o altrettanti misfatti, costoro il meritato castigo li getta nel Tartaro, e di lì non escono fuori mai più.
Quelli invece che siano incorsi in colpe espiabili sì ma gravi, come chi per esempio in un impeto di collera abbia fatto violenza al padre o alla madre e poi se ne sia pentito e abbia vissuto così il resto della sua vita; o chi sia divenuto omicida per altro motivo simile e allo stesso modo se ne sia pentito; costoro debbono sì necessariamente precipitare nel Tartaro, ma poi, trascorso un anno laggiù dalla loro caduta, ecco che la marea li ricaccia fuori, gli omicidi lungo il Cocito, i violenti contro il padre e la madre lungo il Piriflegetonte; e quando, trasportati da queste fiumane, giungono a livello della palude Acherusiade, qui allora gridano e invocano, gli uni quelli che uccisero, gli altri quelli cui fecero violenza, e chiamandoli a nome pregano e supplicano che li lascino uscire fuori nella palude e che li accolgano; e se riescono a persuaderli, escono fuori e così hanno pace dai loro mali; se no, sono riportati via un’altra volta nel Tartaro, e dal Tartaro sono ributtati un’altra volta nei fiumi e mai cessano di patire quest’alterna vicenda se prima non hanno persuaso coloro a cui fecero offesa: perché questa è la pena che da quei giudici fu loro inflitta.

Quelli poi i quali sono segnalati fra tutti per la santità della vita, costoro vengono a trovarsi senz’altro liberi e sciolti da questi luoghi terreni come da carceri, e giungono in alto nella pura abitazione e abitano sulla vera Terra.
E di costoro sono quelli i quali, fatti mondi e puri dalla filosofia, vivono il resto di loro vita senza legami corporei, e giungono in abitazioni anche più belle di queste, le quali non è facile descrivere, né basterebbe il tempo nell’ora presente.

E così dunque, o Simmia, per tutto quello di cui abbiamo discorso, giova non tralasciare nella vita alcuna cosa per acquistare virtù e intelligenza: ché bello è il premio e la speranza è grande.
Certo, ostinarsi a sostenere che le cose siano proprio così come io le ho descritte, non si addice a uomo che abbia senno; ma che sia così o poco diverso di così delle anime nostre e delle loro abitazioni dopo che s’è dimostrato che l’anima è immortale, sostenere questo mi pare si addica, e metta anche conto di avventurarsi a crederlo.

E la ventura è bella. E giova fare a se stesso di tali incantesimi; e proprio per questo già da un pezzo oramai io tiro in lungo la mia favola.
Ma qui appunto sta la ragione che timori per la propria anima non deve avere chi disse addio ai piaceri del corpo e ai suoi ornamenti, sapendo che le sono estranei, e persuaso che più le possono far male che bene; e si curò invece dei piaceri dell’apprendere, e l’anima adornando non di ornamenti a lei alieni, ma di quelli suoi propri, temperanza giustizia fortezza libertà verità, attende così preparato l’ora del suo viaggio all’Ade, pronto a imboccare la sua strada appena il destino lo chiami.

(Platone, Fedone, 109b-115a)