Da Pafo nacque quel Cinira che, se fosse rimasto senza prole, si sarebbe potuto annoverare tra gli uomini felici.
Canterò cose terribili. State lontane, ragazze! Lungi da qui, padri!

Ma se, allettati dal mio canto, restate, voglio che non prestiate fede a questa parte del mio racconto, che non lo prendiate per un fatto vero; ma se tale lo crederete, che crediate però anche alla punizione in cui incorre.
Comunque sia, se la natura permette che si veda un tale misfatto, io mi congratulo con le genti di Tracia e con la nostra parte di mondo, mi congratulo con questa terra, per essere così distante da quelle regioni che hanno prodotto una sì grande nefandezza.
La terra di Pancaia sia pure ricca di amomo, e produca pure la cannella e l’incenso suo proprio, e i profumi trasudati dal legno e tutti i fiori che vuole; ma la mirra, perché? Non aveva in serbo, quest’albero, una gran bella novità! Cupido stesso nega, o Mirra, di averti ferito con le sue frecce, e proclama che la sua fiaccola non ha niente a che vedere col tuo crimine. Fu una delle tre sorelle [Furie] ad appestarti con un tizzone dello Stige e col veleno delle vipere. È delitto odiare il padre, ma questo tuo amore per lui è un delitto ancora più grande!
Ti desiderano pretendenti scelti d’ogni paese, giovani di tutto l’Oriente vengono a contendersi la tua mano. Scegline uno, Mirra, un solo marito fra tutti, uno però che non sia [preso a caso] fra questi tutti!
Lei stessa se ne rende conto e cerca di resistere a questo turpe amore, e tra sé e sé: «dove mi porta la mente? che cosa sto tramando?», dice.
«O dèi, vi prego, e prego te, Affetto, e voi, norme sacre della Famiglia, impedite questa nefandezza e opponetevi al mio delitto, ammesso che delitto questo sia. Infatti, non pare che l’Affetto condanni questo genere d’amore, e gli altri animali si accoppiano senza fare nessuna distinzione, né si ritiene turpe che una giovenca si faccia montare dal padre; il cavallo si sposa la figlia, il capro si unisce alle capre che ha procreato, e anche la femmina dell’uccello concepisce da colui dal cui seme è stata concepita. Beati loro che possono farlo! Gli scrupoli umani hanno dettato perfide leggi, e ciò che la natura permette, norme invidiose lo proibiscono.
«Eppure si dice che ci sono genti presso cui la madre si unisce al figlio, e la figlia al padre, e tra loro l’affetto cresce con questo sommarsi di amore ad amore. Oh, povera me che non ho avuta la fortuna di nascere lì, e sono afflitta dalla sventura d’esser nata qui!
Ma perché rimugino sempre queste cose?
Via, speranze proibite! È degno di essere amato, ma come padre, Cinira. Insomma, se non fossi figlia del grande Cinira, potrei giacere con Cinira; ora invece, poiché è così che è mio, mio non è; è la vicinanza stessa, la nostra stretta parentela, che mi danneggia. Se gli fossi estranea, avrei più possibilità!
«Mi piacerebbe andar via di qui, lontano dal suolo della patria, pur di sottrarmi a questa scelleratezza. Ma un ardore malsano mi trattiene qui innamorata, pur di essere presente e poter vedere Cinira e toccarlo e parlargli e dargli dei baci, se di più non mi è concesso.
Potresti sperare qualcos’altro, o empia vergine? T’accorgi di quanti sacri vincoli e nomi confonderesti? Sarai dunque rivale di tua madre e amante di tuo padre? Ti farai chiamare sorella di tuo figlio e madre di tuo fratello?
«Non avrai paura delle tre sorelle dal capo irto di serpenti neri, che appaiono a chi ha il cuore impuro e con torce crudeli gli si avventano contro gli occhi e il viso?
Suvvia, poiché ancora non ti sei macchiata col corpo, non concepire scempi col pensiero, e non profanare con un coito proibito i patti della natura potente!
Anche se tu volessi, c’è la realtà a impedirtelo, perché Cinira è pio e fedele al costume – e però come vorrei che anche in lui si agitasse una simile furia!»
Queste cose dice. E intanto Cinira, indeciso sul da farsi – tanti sono i pretendenti degni, le chiede, dopo averle elencato i nomi, di dire lei stessa a chi vuole essere data in moglie.
Sulle prime ella tace e, fissando il volto del padre, arde e gli occhi le si velano di tiepide stille. Credendo Cinira che la cosa sia dovuta a verginale pudore, le dice di non piangere, e le asciuga le guance, e gliele copre di baci.
Tutta ne gode Mirra, anche troppo, e alla domanda come le piacerebbe che fosse il suo sposo: «Simile a te», rispose. E lui, non comprendendo il senso di quelle parole, la elogia e le dice: «Resta sempre così affettuosa!».
A sentir parlare di affetto, la vergine abbassa lo sguardo, sapendosi colpevole.
Nel cuore della notte, corpi e pensieri sono immersi nel sonno. Ma la figlia di Cinira non dorme, è divorata da un fuoco indomabile, ricade nelle sue follie e di nuovo si arrovella, e ora dispera, ora invece si decide a fare un tentativo, e si vergogna, e brama, e non trova una via d’uscita.
E come un grande tronco, ferito dall’ascia, un attimo prima di cadere sotto l’ultimo colpo, tentenna e non si sa da che parte cadrà, così la sua mente fiaccata da tante percosse oscilla di qua e di là e sbanda ora da un lato, ora dall’altro. E altro freno al suo amore, altra pace non vede che la morte. L’idea di morire le piace. Si alza con l’intenzione di strozzarsi con un laccio e, legata la cintura in cima a uno stipite: «Addio, caro Cinira – dice – comprendi la causa della mia morte!», e comincia a sistemarsi il cappio intorno al pallido collo.
Si racconta che i suoi mormorii giunsero alle orecchie della fedele nutrice, che stava sulla soglia a guardia della sua pupilla. Balza su, la vecchia, e spalanca la porta e, vedendo quei preparativi di morte, allo stesso tempo grida aiuto, si batte il petto, si lacera le vesti, sfila il collo dal cappio e strappa il laccio. Solo alla fine scoppia a piangere, e abbraccia Mirra e le domanda il perché del cappio.
La vergine tace, muta e immobile se ne sta con lo sguardo fisso a terra, e si duole che è andato a vuoto il suo tentativo, troppo lento, di darsi la morte.
La vecchia insiste e, scoprendosi i capelli bianchi e le flaccide mammelle, la scongiura, per averla cresciuta sin dalla culla, di confidarle la sua pena, qualunque sia.
Quella alle domande si sottrae girandosi dall’altra parte, e geme. Ma la nutrice è decisa a indagare e le promette che manterrà il segreto, e non solo.
«Parla! – le dice – e lascia che io ti aiuti. Sono vecchia sì, ma non inutile. Se è un accesso di follia, conosco una che può guarirti con incantesimi ed erbe; se qualcuno ti ha fatto il malocchio, un rito magico te lo toglierà; se è ira degli dèi, la si potrà placare con dei sacrifici. Che altro devo credere? Di sicuro non ti manca nulla, e a casa tua va tutto bene, e tua madre è viva, e vivo è tuo padre».
Mirra, a sentir nominare il padre, manda un sospiro profondo, e tuttavia la nutrice non sospetta alcunché di sconcio, pur intuendo che c’è sotto qualche amore. Ostinata, continua a pregarla di aprirsi, di qualunque cosa si tratti, e la prende in lacrime sul suo grembo di vecchia e, stringendola nelle sue deboli braccia, le dice: «Abbiamo capito: sei innamorata! Ma in questo, non temere, le mie premure ti saranno d’aiuto, e tuo padre non ne saprà nulla».
Mirra si leva furibonda dal suo grembo e, buttatasi nel letto, affondando il volto nel cuscino, le grida: «Vattene, ti supplico, e abbi pietà di un’infelice che si vergogna». E poiché quella insiste: «Vattene – le ripete – oppure smettila di chiedere cosa mi tormenta: è una colpa infame, la cosa che ti sforzi di sapere».
La vecchia sobbalza, allunga le mani tremolanti e per l’età e per lo spavento, e supplice si getta ai piedi della fanciulla, e ora la blandisce, ora invece le mette paura perché confessi, e minaccia di andare a riferire del laccio e del tentato suicidio, e promette di aiutarla se le confida chi ama.
Mirra alza la testa e inonda di lacrime il petto della nutrice, e più volte è sul punto di confessare, più volte trattiene la voce e, nascondendosi con la veste il viso per la vergogna, dice: «O madre, beata te che sei sua moglie!».
Non dice altro, e manda gemiti.
Un brivido di gelo corre per il corpo della nutrice (ora che ha capito) fin nelle ossa, e su tutto il capo le si rizzano i capelli bianchi. Pur di scacciare, se può, quel terribile amore, adesso ha da dire molte cose. Mirra sa che sono giusti ammonimenti, ma è decisa lo stesso a morire, se non può soddisfare il suo amore.
E la nutrice: «Vivi – le dice – e avrai tuo …», e qui, non osando dire «padre», tace, e conferma con un giuramento la promessa fattale.

Le mogli devote celebravano la festa annuale in onore di Cerere, nel corso della quale, avvolte in vesti bianche come la neve, offrono alla dea le primizie dei suoi frutti – ghirlande di spighe – e per nove notti considerano cose proibite l’unione e il contatto con l’uomo.
Tra quella folla c’è anche Cencreide, la moglie del re, che partecipa ai riti segreti. Ed ecco che, mentre la legittima consorte diserta il letto, la nutrice nel suo sciagurato zelo, avendo trovato Cinira ubriaco, gli racconta, mentendo sul nome, di quell’amore vero e loda la bellezza dell’innamorata.
Alla domanda quanti anni abbia: «Ha l’età di Mirra», risponde. E appena riceve l’ordine di condurla, corre da Mirra e le dice: «Gioisci, figlia mia: abbiamo vinto!».
Non è una gioia piena, quella che la fanciulla prova, e tristi presentimenti l’affliggono. E tuttavia gioisce: tale è la discordia che le agita la mente.
Era l’ora in cui tutto tace, e Boote piegando il timone aveva già inclinato il suo carro tra le stesse dell’Orsa. Mirra si avvia al misfatto. Fugge dal cielo l’aurea Luna, e nubi nere coprono le stelle che dileguano, la notte si svuota d’ogni suo fuoco. Per primo tu nascondi il volto, o Icario, insieme a tua figlia Erigone divenuta celebre per il suo nobile affetto per te.
Per tre volte il piede, inciampando, le manda un segnale, per tre volte il gufo funesto l’avverte col suo verso di morte. Ma quella lo stesso va, e le tenebre dell’oscura notte attenuano la vergogna.
Con la sinistra stringe la mano della nutrice, con la destra a tentoni esplora il buio cammino. È ormai giunta sulla soglia della camera, ecco che apre la porta e s’introduce nella stanza.
Le ginocchia le tremano e quasi più non la reggono, fugge il colore e il sangue, il coraggio l’abbandona mentre avanza. E più si avvicina al suo scempio, più rabbrividisce e si pente dell’audacia, e vorrebbe tornare sui suoi passi senza essere riconosciuta.
Esita, ma la vecchia la tira per la mano e, accostandola all’alto letto, passandola in consegna dice: «Prendila, è tua, Cinira!» e unisce i loro corpi nel desiderio.
Così il padre accoglie la carne della sua carne nell’osceno letto, e le toglie le paure di vergine e rassicura la sua timidezza. E forse, per via dell’età, la chiama «figlia», e lei «padre» risponde, perché all’incesto non manchino i nomi.
Gravida del padre, Mirra esce dalla camera, portandosi nel grembo maledetto l’empio seme e la colpa fecondata.
La notte seguente il misfatto si ripete, e non per l’ultima volta. La cosa andò avanti finché Cinira, curioso di conoscere l’amante dopo tanti accoppiamenti, accostata una lampada la vide, scoprendo insieme la figlia e il crimine.
Ammutolito dal dolore, sguainò la lucida spada appesa alla parete.
Mirra fuggì e grazie alle tenebre, col favore della notte buia, si sottrasse alla morte e, vagando per l’aperta campagna, lasciò l’Arabia ricca di palme e i campi di Pancaia.
Nove volte ricomparve la falce della luna e lei ancora fuggiva, quando infine si fermò sfinita nella regione di Saba. A stento reggeva il peso del grembo. E allora, non sapendo che altro augurarsi, dibattuta tra la paura della morte e la stanchezza di vivere, formulò questa preghiera: «Se c’è qualche nume che si apre all’ascolto di chi confessa le proprie colpe, mi merito, e non la rifiuto, una fine miserabile. Ma perché io non profani vivendo i vivi o morendo i morti, scacciatemi da entrambi i regni e, trasformandomi, negatemi sia la vita che la morte!».
Sì, c’è qualche dio che ascolta le confessioni di colpa; o almeno qualche dio esaudì il suo ultimo desiderio. Ecco, infatti, che mentre parla della terra si ammucchia intorno alle sue ginocchia; le unghie dei piedi si fendono e buttano fuori oblique radici, sostegno di un alto fusto. Le ossa si fanno legno, e mentre all’interno resta il midollo, il sangue trapassa in linfa, le braccia in grandi rami, e le dita delle mani in ramoscelli. La pelle s’indurisce e si fa corteccia.
La pianta ormai, crescendo, le ha fasciato il grembo gravido e le ha sommerso il petto: sta per coprirle il collo ormai. Non tollerando più indugi, essa si lascia scivolare giù incontro al legno e immerge il volto nella corteccia.
Ma sebbene abbia perduto col corpo anche la vecchia sensibilità, continua a piangere, sicché dalla pianta trasudano tiepide gocce.
Ci sono, sì, lacrime degne di onore: la mirra trasudata dall’albero prende il nome da colei che la piange, né tempo ci sarà in cui quel nome sarà mai più taciuto.
(Ovidio, Metamorfosi, 10: 298-502)