
… i Dogon raccontano che Amma «disegnò» il mondo prima di «crearlo». Che anzi lo scarabocchiò quando ancora non sapeva disegnare.
Raccontano che prima se l’immaginò, prima se ne fabbricò le «immagini» – e solo avendolo immaginato seppe poi metterlo al mondo.
Partorizione dopo partizione – dice Lacan.
Perché Amma questo fece: mise al mondo solo il mondo che aveva saputo frammentare in «immagini parziali».
Nessuno, neanche dio, sa o può creare altro che quello «scarabocchio» che porta scritto nella mente.
Saper creare: sapere chi si mette al mondo. Sapere che le «cose» vengono dopo l’apparizione dei loro «antenati immaginari». Sapere che l’Arte è tutta (come dice la parola) nell’Articolazione della Voce. Sapere che ogni articolo della merce esposta alla Fiera del Simbolo, è un frammento del corpo di Amma. Saperlo, è saper custodire la propria fecondità.
La soglia della creazione [verbale]: «In principio la Parola».
La Parola «crea» il suo principio, tagliando il cordone ombelicale col Disegno di cui si elegge a portavoce. La Voce con le sue articolazioni «crea» un nuovo corpo, il corpo d’un «principio» staccato e tagliato via dalla matrice grafica della sua origine. La Voce non cancella la sua sorgente, ma vi sovrascrive un altro strato della nostra mente: un altro «corpo» che viene a fungere da organo del precedente.

Ecco perché la Voce tradisce sempre il Disegno mentale di cui è messaggera. Perché solo tradendolo può provare a tramandarlo. Perché può tramandarlo solo se lo traduce in un’altra lingua. Solo se lo sposta dalla «lingua muta» degli occhi a quella un po’ chiassosa che si scambiano orecchi e bocche.
Da un organo all’altro. Da un corpo all’altro. Strato su strato: è così che si viene anagrammando il nostro destino umano. Imparando man mano a «leggere» ciò che è già «scritto». Prestandogli la propria Voce, rivolgendogli la propria Parola.
La Parola «crea» il Racconto in cui il mondo «scritto» diventa finalmente «orale». Ha trovato una porta da cui far uscire alla Luce gli ideogrammi incisi dalla mano di Amma. La porta (simbolica), passando la quale, essi diventano, infine, «loquaci».
Lo diventano «sposandosi», accoppiandosi e scoppiandosi reciprocamente. Aprendosi e chiudendosi a una loro sequenza o, come direbbe il linguista, a una «significazione relativa»: alla significazione della loro «relazione».
La Voce presta al Disegno – alla sua matrice grafica – quella «articolazione» senza la quale nessuna differenza emergerebbe dal monotono fluire della corrente.
Là dove la corrente scorre, la Voce discorre. E discorrendo «crea» il miraggio di un aldilà del Disegno Muto, il miraggio d’uno spazio – di quello che è propriamente lo spazio del Racconto Umano – in cui le figure impresse nei «punti critici» della corrente, come per incantesimo, si animano di vita propria e l’una all’altra si rimandano e si succedono in sequenze e logiche combinatorie che, almeno per un po’, sembrano offrire un riparo a chi è in fuga dalla Notte Nera del fluire incessante e inafferrabile del πάντα ρέι.
In capo a ogni «c’era una volta», la nostra creatività traduce (algebricamente trasporta) da un corpo all’altro le «impressioni» che porta stampate nella mente.

Grazie alla Voce ne tradisce l’origine immaginaria, facendone parole. Le parole da dare ai fantasmi preverbali che presero dimora nei «punti critici» del nostro primo scarabocchio.
Saper creare è saper tradire – è saper tradurre i «bummo» (così li chiamano i Dogon), i disegni muti su cui si regge il mondo della parola – è saper dare voce ai nostri arcaici scarabocchi tramandandoli a parole.
Perché il mondo «creato» comincia là dove come e quando entriamo a far parte di una condivisione linguistica, ovvero di un’alleanza simbolica. E solo allora la parola «crea» il (simbolo) mondo. Il mondo «pattuito» simbolicamente.
Prima della parola c’è un sapere muto, un sapere «grafico».
Prima di leggere, sappiamo già scrivere. Sappiamo già «disegnare».
Ma i segni che disegniamo non sono ancora propriamente segni – essi non stanno al posto di qualcun o qualcos’altro.
Disegniamo segni insignificanti. Immagini di un’immaginazione «increata» o «preverbale», geroglifici di una scrittura arcaica, segni che ci segnano una volta per sempre, impressioni che hanno la forza di stamparsi in mente prima dell’«apparizione dell’uomo (parlante) sulla terra».
L’immaginazione «disegna» quel che poi la parola s’incarica di «creare». La parola, in fondo, non è che una caricatura, pardon! – nient’altro che una creatura dell’immaginazione creatrice. E se adesso in giro va dicendo: «In principio la Parola», è solo perché la Parola è Sancho Panza né più né meno di quanto l’Immaginazione è don Chisciotte.

Tutt’e due hanno bisogno di rifarsi a un’epopea, un mito o una leggenda, di cui si sentono chiamati a rilasciare una testimonianza, producendone le immagini e le parole.
Immaginazione e Parola sono entrambe produzioni della «mimesi», come soleva dire Platone. Sono imitazioni organiche di un fantasmatico Minotauro, di un mitologico «corpo senz’organi».
Disegni e parole si appellano sempre a un modello che li trascende, a un «a priori» trascendentale totalmente all’oscuro di grafemi e di fonemi. Non è né scritto né orale. Nessuno, neanche dio, può dire una volta e per sempre «è questo» o «è quello».
Per altra strada verrai a piaggia, non qui per passare – non dalla logica delle parole né dall’estetica delle icone.
Non perderti nella vana disputa sulla verità del questo o del quello, ma ricorda: che sia questo o che sia quello, che sia un disegno immaginale o una nota musicale, bisogna che da qualche parte nella mente ci sia un «luogo», nonché una facoltà non solo di produrli, ma pure di registrarli.
Perciò tieni a mente la «superficie» su cui segni e parole, come anche suoni odori e sensazioni varie s’iscrivono. Pensa alla mente come a una lavagna nuda – o, come diceva la buonanima di Aristotele, a una «tabula rasa». Pensala, se vuoi, come un «corpo» sì, ma «senz’organi». Un corpo sottile, una lamella double-face, una pellicola trasparente.
L’uomo, dicono i Dogon, prima di fare la sua apparizione nella terra del dicere a parole, era un «pesce siluro». E – come tutti i pesci – c’è da scommettere: nuotava nella corrente del πάντα ρέι. Immerso nei flussi dell’Indifferente.
Ora, quel «pesce siluro» era – e non poteva essere altrimenti – pure lui indifferente al sì e al no, al maschio e alla femmina. Era perciò un essere quadruplo: era insieme due gemelli ermafroditi. Era tutt’e quattro le stelle del Carro – di quel carro che all’atto della creazione doveva poi diventare la sua «bara».

In quanto fluido fluente, in quanto siluro sfrecciante, egli era presente-assente a entrambi i sessi. Essere maschio non gli impediva di essere anche femmina. E se si trovava a essere presente o assente a questo o a quel sesso del suo ermafroditismo, non da lui dipendeva – ma dal flusso che l’investiva, e dall’intensità con cui se ne sentiva investito.
Era il flusso a dargli una veste. O meglio: a dargli un guardaroba (mobile) in cui trovare la veste a lui di volta in volta più confacente – quella che pareva «stargli» meglio. L’abbigliamento dei suoi «Equivalenti Immaginari».
È così che si fa carnevale – con una maschera mascherata: con una doppia maschera, per fingere di essere ciò che realmente si è.
Una mezza idea di se stessi.
Quando era maschio, il nostro Antenato, non era femmina. Ma non era sempre maschio. E quand’era assente non era presente, ma non era sempre assente. Quand’era ricco non era povero, ma non era sempre ricco. Nuotava, il nostro pesce-siluro, nel mare magno delle disgiunzioni intense inclusive.
Intense – perché legate all’intensità della corrente in cui si trovava a essere preso. Non prendeva la corrente, ma dalla corrente era preso ove più ove meno intensamente.
E inclusive – perché il siluro rapidamente sapeva sfrecciare da un polo all’altro della sua quadruplice ambiguità: gemello a se stesso, saltava di palo in frasca, senza doversi mai decidere per il Tutto o per il Niente. Più amletico di Amleto, faceva in sé, nel suo nonnulla, coesistere sia questo che quello. Guadagno e perdita. Quantità e qualità. Gioia e dolore.
Trapassando a volo dall’uno all’altro clima del suo essere quadripartito, il nostro antenato apprendeva così a differenziare il «corpo» dell’Indifferente: solo che le differenze così ottenute erano ancora fluide, sicché non gli comportavano né fissità né esclusioni.
Nulla è precluso al «delirio di onnipotenza» (si chiama così?) del pesce siluro. Eros è figlio di Povertà e Ricchezza. Può tutto e, perciò, può anche in tutto e per tutto essere impotente. La sua impotente onnipotenza è tutto e niente. Ma non è ancora messa di fronte al dilemma dell’aut aut. Il suo «sapere» è saper scoccare la freccia dall’arco zen senza «un» bersaglio da centrare. Non uno, ma un’infinità di centri da creare per essere puntualmente mancati – perché fluidi essi stessi. Sfuggenti a ogni statistica finché non ne spunta il primo «quadrato magico» – finché tra i centri di produzione immaginaria non si trova a essere prodotto anche un centro di registrazione delle immagini.
Il primo «corpo» su cui possiamo «fissare» lo sguardo e di cui possiamo registrare uno «stato», è dunque, per i Dogon, il quadrato dei due gemelli ermafroditi (2 x 2) – il primo schema del mondo che, come Atlante, regge l’universo delle parole, dei simboli fonici e delle astrazioni ideali.
Il «mondo» si regge sulle relazioni di due gemelli ermafroditi, il mondo nasce dall’incontro di due «flussi», capaci entrambi di cariche positive e negative. Il mondo viene al mondo alla «confluenza di due fiumi».
L’Antenato umano è metà bianco e metà nero.
A chi la interpella, la Sibilla non dà che responsi ambigui.
È già tanto se non si vergogna d’essersi aperta, da sempre, all’ambiguità.