L’apollineo e il dionisiaco

maschere- dionisiacheL’apollineo e il dionisiaco: due «forze» linguistiche della natura, forzate a coesistere in una lingua sola. La lingua umana, ovvero il Regno delle due sintassi.
C’è la sintassi dei sogni e c’è quella dei simboli. Una cosa è montare un film muto, altro è scriverne la sceneggiatura.
Il «mondo d’immagini del sogno» ha il suo linguaggio (l’apollineo), la «realtà piena d’ebbrezza» ne parla un altro (il dionisiaco). L’apollineo non «parla» che in senso figurato – trattandosi di un linguaggio senza parole. Il dionisiaco invece parla anche troppo, e troppo spesso cade nell’errore contrario: di prendere per «reali» in senso proprio le sue figure verbali.

Due differenti «impulsi artistici della natura».
È dato per sottinteso [ma è bene ricordarselo ogni tanto] che è la Natura a produrli: è la Natura che fa arte, e che insieme, di quest’Arte, è anche la «materia prima». Il prodotto e il ri-produttore (instancabile).

La Natura produce – natura naturans: produce e riproduce Se Stessa, da ciò che ha prodotto produce sempre nuove produzioni, imitazioni di imitazioni, copie di copie su cui incessantemente riscrive, storpia e talvolta perfino cancella le sue tracce.
La lingua umana è prodotta, a detta di Nietzsche, da un impulso artistico della Natura, e perciò è, essa stessa, produttrice – o meglio: riproduttrice di questo impulso a produrre sul già prodotto, a riscrivere dell’altro sul già scritto, oltre che, va da sé, a disdire il già detto.

De-chirico-le-due-maschereCerchiamo di non farla difficile.
La lingua umana trascrive simboli su sogni – il linguaggio simbolico su quello immaginario.
Scrive Dioniso su Apollo.
Allo stesso modo in cui il demiurgo platonico scandisce gli intervalli d’un terzo sugli intervalli d’un mezzo – e poi su entrambi quelli dell’Ottava.
In fondo, non si tratta che di una nuova «partizione» di ciò che è già partito. Di una nuova frammentazione di una «materia» già frammentata. Di un’individuazione che ha solo da attendere d’essere ulteriormente individuata.

La prima frammentazione, la prima scansione è «a dimezzare», a «fare in due», a s-coppiare, a dis-giungere «oggetti parziali» dal flusso naturale in cui ci si trova immersi – a prelevarli per uno «sposalizio», per ricongiungere due coniugi che in illo tempore sono stati separati – «segati in due» per volere di Zeus, ma per mano di Apollo!
La sintassi «apollinea», potremmo perciò chiamarla delle «sintesi oniriche», in quanto «accoppia» le immagini, le dispone in sequenza (questa succede a quella), dopo averle disgiunte, dopo averle rapite, tolte via una per una dalla «catena» dei loro contesti di codice e di messaggio, per incatenarle al suo «ordine». Per ordinarle a modo suo, a uso e consumo dei suoi sogni. Senza con ciò voler «esprimere» niente di niente. Giocando semmai a «sopprimere» il superfluo, a negarlo per alleggerire il carico di memoria (a conservarlo, dice Lacan, nella soppressione), a relegarlo sullo sfondo per fare tesoro del «poco» che resta. Per farne una «sintesi»: della serie «non c’è nessuno tra te e me».
A questa immagine se ne sposa solo un’altra: la sua «anima gemella».
Minimo numero è la Diade [apollinea: io-tu].
La Frazione [numeratore-denominatore].
Tutto è diviso solo per due.

La sintassi «dionisiaca», la seconda «forza linguistica» della Natura (quella che una volta i Greci chiamavano Dikê), potremmo invece chiamarla delle «congiunzioni simboliche», in quanto «opera» a ricongiungere ai flussi del Racconto, a reinnestare nei codici del Discorso, la materia che ne è stata disgiunta. A riallacciare alla catena della Legge l’anello linguistico che ne è stato mal-tolto.
Nel linguaggio immaginario non si esce dal [linguaggio] binario: delle due «metà» di ogni coppia, esso si limita a decidere la loro posizione reciproca in una data sequenza. Più che di «stile», è una questione di «rango» che la sua sintassi assolve nell’atto in cui le associa (questione che, a detta dei Greci, una volta era appannaggio di Temi). Le associa per sopprimerle, per estinguerle – per consumarle nel loro stesso talamo nuziale.
Nella migliore delle ipotesi, nella più paradisiaca delle possibilità, non lascia nessun resto. Il che è come dire la Morte Perpetua.

Se la parola ti sembra troppo forte, allora cambiala!
Prova a dire Sazietà Permanente, o Estate Eterna, o Sole sempre allo zenit, e dimmi: dov’è più la vita?
Prova a immaginarti un’infanzia senza traumi, una Pianura senza montagne e senza valli, una Biga dove Cavallo Bianco e Cavallo Nero stanno sempre in pareggio di bilancio. E dimmi: non ti pare che neanche un dio vorrebbe per sé qualcosa del genere?
Eva, c’è da capirla – se ha fatto quel che ha fatto: per vivere, bisogna imitare i mutamenti della Natura, anziché negarsi ad essi.

Signori, per favore datemi un trauma! Ho bisogno di uscire dall’autismo. Di uscire dall’indifferenza. Ho voglia di andare nel mondo a dire la mia differenza. Datemi una lingua, per favore fatemi uscire da questa stanza chiusa – da questa caverna di Polifemo.

Ermes-ruba-vacche-Apollo

Finché Apollo basta a se stesso, dov’è il problema?
È là dove la sua sintassi fallisce, e si trova alle prese con una disparità, con un «disgiunto» che in nessuna coppia giunge a dissolversi e a darsi pace – è là che la lingua di Apollo, malgrado tutti gli sforzi di resistenza, finisce per dover (traumaticamente) alzare bandiera bianca.
È là che l’«ebbrezza», ma sì diciamolo: è là che la «pazzia» dionisiaca irrompe con la sua nuova sintassi «per terzi», una sintassi per il dispari, una sintassi che fa del dispari l’Uno in cui ogni uno è chiamato a «redimersi» (parola testuale di Nietzsche, ma anche del presidente Schreber!), una sintassi del mondo, esso il Terzo, il Signore della catena a cui ogni anello dev’essere restituito – se non per destinazione, almeno per destituzione dell’immagine dal suo vecchio «privilegio».

L’Uomo è «imitatore» della Natura. L’Uomo «produce» e «riproduce» le produzioni della Natura. L’Uomo «imita», ripete, scimmiotta gli «impulsi naturali» all’Arte: solo allora è «artista». Solo quando asseconda la sua natura e, dopo averla scippata dei sogni che gli ha fatto sognare, alla natura torna a restituirli.
L’occhio ha rubato immagini, linee e contorni, ha trafugato sette colori dal continuum di un arcobaleno. L’occhio ha prodotto fantasmi, sognandoli in una sua propria (individuale, separata) sequenza. Ed è andata avanti così, finché l’occhio non è rimasto traumatizzato per aver «visto» un che di celibe, di orfano o di vedovo, un resto irriducibile a una qualunque coppia, un dispari sempre ansioso, ma mai in grado, di accoppiarsi.
Un mostro troppo mostruoso, per non doverci fare i conti.

Siamo qui, con Apollo, siamo come il nostro divino archetipo prigionieri della caverna. E di fronte, orribile a vedersi!, abbiamo l’occhio dispari di Polifemo: ci guarda e già si lecca i baffi all’idea di arrostirci.
Siamo qui – nella Paura.
Più che regrediti, sprofondati nel fondo dello Spavento. Tutto è barbarie, guerra, forza e prepotenza.
Mangiafoco ci vuole mangiare!
È la sua fame che il dionisiaco dev’essere così astuto da ingannare.

La sintassi del dionisiaco è fatta di astuzie, di falsi e di menzogne – è fatta di maledizioni del maltolto. È fatta di bestemmie!
Osare nientemeno fare festa alla Morte per vivificarla!
Il dionisiaco nasce nelle feste, in piazza, in mezzo alla gente. Nasce nella confusione, nella chiacchiera e nel grido che fanno da colonna sonora a «una esuberante indisciplinatezza sessuale». Nasce dallo scatenamento della Bestia che Apollo ha mal legato: dalla riemersione del «soppresso» e dalla nuova scansione dell’«informe», ovvero di ciò che il linguaggio immaginario non è riuscito a «formalizzare».
Nasce dallo stravolgimento delle regole apollinee. Come l’onda di piena che travolge gli argini di un vecchio cocciuto «rifiuto», la sintassi di Dioniso irrompe nell’orecchio del Guaglione.

A Narciso torna l’Eco «ripudiata» privatamente. Torna dalla piazza, dalla lingua «pubblica» gli torna ciò a cui si è reso estraneo.
In piazza, alla Festa, l’Uomo parla la lingua di Dioniso, gioca ai giochi di prestigio del Mago delle seduzioni. Un’altra lingua, un altro impulso linguistico della Natura.
Nietzche2E se Natura a Natura si arrende, ancora un altro scippo le può essere scippato. Ancora un’altra dose di «istinti» attinti alla Fonte. Tossici, a volte letali – ma che la piazza si compiace di «eccitare».

Nietzsche dice che Apollo e Dioniso (dopo la guerra) hanno fatto la pace. Dice che i due linguaggi si sono «riconciliati» nella lingua degli antichi Greci, e che il loro Dioniso non era il Dioniso barbaro, ma il Dioniso capace di coesistenza con Apollo.
Ciò che non dice è che fu Ermes, il «dio dei ladri», il loro mediatore. Il mito conosce, non due, ma tre Infanti Divini: Apollo, Ermes e Dioniso. È perciò imperdonabile omettere la sua presenza sulla scena.

Ermes «divinizza» il furto, quale che sia la refurtiva. Lo «sacralizza» a una condizione, diciamo alla condizione di Robin Hood: che il furto sia aperto a pareggiarsi in un dono. Che il ladro rubi per donare.
Questo è divinamente Umano. Rubare per restituire a chi è stato derubato. Restituire addirittura la vita al morto. O arrivare nientemeno a rispettare i diritti del grano, quando si mangia il pane! Questo è il medium ermetico che riconcilia le due sintassi nella lingua degli antichi poeti e narratori greci.
Ermes ruba le vacche ad Apollo, per poi donargli la lira. E ruba Arianna a Dioniso per farne una costellazione e restituirla così al cielo a cui era stata rapita.
Che sia la Corona Boreale, la Vergine o la Lira – la refurtiva, immaginaria e/o simbolica, apollinea o dionisiaca, Ermes insegna al Ladro a donarla.
A deporla.
Come pegno di pace.