To take to give is all
(Dylan Thomas)
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Ci mangiamo futuro. Tanto futuro, a volte, in un boccone solo.
Per ingordigia ci riduciamo a vivere una vita breve, a consumare in fretta i nostri pasti.
Carpe diem! – ditelo ai maiali, glielo manda a dire quel porco del gregge di Epicuro: carpisci, prendi, arraffa il tempo!

Madonna, che ansia mi mette solo pensarlo! Devo affrettarmi a prendere ciò che la vita mi dà – perché è la vita stessa che ha fretta di finire, ha fretta di consumare i suoi appetiti, di soddisfarli. La vita è affamata!
E sia!
Sia pure che la Vita è Fame, che è Istinto di Morte – ma non è proprio questa la «ragione» per andarci piano?
Se tutto è insensato, che senso ha togliersi subito il pensiero?
Avemmo un dono, siamo pregati di non scordarcelo.
Molti doni avemmo.
Avemmo Pandora. Con lei avemmo tutti i doni. Non ci fu donato altro che d’essere invasati di lei.
Avemmo l’Immagine. L’incontrammo nel bosco, che eravamo piccoli e ciechi. Non so se ti ricordi: era circa duemila anni fa, forse molto di più. Eravamo in giro per il bosco, quando l’incontrammo.
Non sapevamo nulla del bosco né di noi stessi, allora.
Non potevamo saperlo, prima che Prometeo ci portasse una scintilla di fuoco rubata ai «celesti».
Non c’è dono che non scenda dal «cielo».
Quell’Immagine – la nostra prima «sposa», qualcuno la chiama la Fidanzata celeste. Dice che è Lei a «beatificare» l’immaginazione dello sposo a cui è data «dall’alto dei cieli». Dice che «vedere» Lei è stato il principio della sua follia d’amore.
Aveva solo nove anni, il ragazzo.
Quando tornò dal bosco carico di meraviglie (nel bene e nel male), il ragazzo aveva solo nove anni.
Com’è antico dire quello che sto dicendo!
Come se il tempo non fosse passato in fretta, come se settecento anni fossero ancora fermi là, più lenti della più lenta delle tartarughe, ancora là di fronte a quell’antica «perplessità». Di fronte a quella «complessità perversa» (Kant la chiama «sintesi a priori») che è, a ciascuno, la radice una e trina della sua mente «umana».
Tre radici, tre cariatidi, tre rospi: come posso dirlo, se non in una lingua antica? – in una lingua ancora presa nella domanda, ancora impotente nella risposta? perché affrettarmi, e dove, se l’orologio della mia «umanità» è ancora fermo là, a quando – come tutti – scoprii anch’io d’aver avuto in dono Lei, la Sposa, l’Immagine?
Corresti a scoperchiarla, mio stolto Epimeteo, e adesso cosa vuoi?
I mali, i mali, tutti i mali del mondo sono racchiusi nella tua ansia!
Ti sei divorato il futuro. Sei sazio, ma avrai ancora e sempre fame. Più fame, perché non hai più niente da mangiare. Non ti resta che mangiare te stesso, una volta che hai mangiato i figli tuoi, mio caro conte Ugolino.
Carpisci, arraffa, abbuffati – maiale.
Grugnisci: carpe diem! – e continua pure a pensare: questa sì che è Arte!
Senti che musica devono sentire le tue orecchie! Pur di non sentire il richiamo della [Vergine della] Roccia della tua infanzia!
Dove vai? Dove ti avvii?
Non puoi essere Teseo, se fuori dal labirinto non ti aspetta Arianna.
Se fuori dall’orario dai pasti, non ti resta che di lavorare (o peggio: di far lavorare altri al posto tuo) per procacciarti il pane quotidiano, e se per essere assunto al lavoro, devi scordarti che sei un «uomo» e accettare che la Bestia ti imbestialisca ogni giorno di più – se insomma di te stesso non ti resta più che l’appetito, guarda che confusione di babele!
Uno ti dice: «mangia!», e tu intendi che ti sta dicendo: «fotti!».

Porco del gregge di Epicuro, stammi a sentire: provo a dirtelo a bassa voce, scusami se non grugnisco ansie, se invece di andare avanti nel racconto, sto o addirittura torno sui miei passi.
Avrai avuto pure tu nove anni, amico mio porco. E la tua Sposa, l’Immagine nella lingua dei cui «colori» ti sei congiunto, anno più anno meno, col mondo dell’immaginazione umana, quando tra gli uomini hai avuto in dono licenza d’entrare (l’avesti «dall’alto dei cieli», dal tuo uccello-totem avrebbero detto una volta), ti ricordi o veramente ti sei scordato che l’aquila ti chiese il primo boccone? che agli angeli andava restituito il dono? e che il dono in nient’altro consisteva che nel dare agli angeli il diritto di precedenza, la prima parola, l’incipit del tuo racconto – del racconto che della tua vita fai a te stesso?
Darlo agli angeli è darlo al Racconto – perché è il Racconto che racconta di amore e induce ad amare, ed è sempre il Racconto che racconta dell’Uomo e così umanizza chi l’ascolta.
L’umanizza dicendogli: non correre! il giorno è breve, non rincorrere i suoi richiami, il giorno passa, non andare al passo col giorno! rallenta! Aspetta che venga Arianna a torcere il filo della tua vita – se uomo vuoi restare.
Perché è di questo che si tratta, e in tutte le lingue il Racconto ce lo racconta: che l’«umanità» è una condizione provvisoria, una stazione di passaggio. Non si nasce uomini.
Si diventa (o si cessa di essere) uomini.
L’Uomo non ha fretta! È così che si riconosce!