
L’atto di carpire il fuoco, quale atto di appropriarsi di qualcosa – quale rapina o furto – caratterizza colui che lo compie come una persona sulla cui esistenza grava una mancanza. Quanto più è essenziale ciò che viene rubato, tanto più grande appare la mancanza.
Per Ermes il fuoco non era essenziale ed egli non lo rubava, bensì lo trovò – come ce lo racconta l’Inno omerico – per propria inventiva, quasi nel proprio spirito.
Per Efesto, invece, il fuoco è così essenziale che il suo nome stesso viene applicato ad esso. Egli lo possiede, ed appunto perciò ogni forma di vita degna dell’uomo – impossibile senza il fuoco – può essere fatta risalire a Efesto, come accade ugualmente in un Inno omerico (dedicato a questo dio). A lui, ma non alla sua mancanza, bensì alla sua pienezza. Né lui né Ermes hanno bisogno di rubare il fuoco.
L’oscurità di Prometeo si rivela come la mancanza di un essere per il quale proprio il fuoco sarebbe essenziale per raggiungere una forma di vita più perfetta. Prometeo lo procura per l’umanità, rivelandosi in questo modo come un alter-ego dell’umanità e rimanendo l’eterna immagine della sua forma d’esistenza fondamentalmente deficiente.
Eschilo evoca quest’immagine nella sua eternità sotto l’aspetto del dio Prometeo, benefattore dell’umanità e, nella forma d’esistenza in lui eternata – una forma d’esistenza che rappresenta una possibilità atemporale e indipendente da ogni realizzazione – rileva i tratti fondamentali del modo umano d’esistere […]
La prima tragedia della trilogia, il Pyrphoros, il «portatore di fuoco» definisce il ladro di fuoco in modo obiettivo, senza bollarlo come peccatore. L’atto di carpire il fuoco era naturalmente anche per Eschilo, come per Esiodo, un furto. Anzi, Eschilo, nel Desmotes, allude a quella stessa maniera di esecuzione del furto, cui accenna anche Esiodo.
Se mancava la condanna, e la terribile punizione sopraggiungeva lo stesso – punizione fissata probabilmente già nel primo dramma a trentamila anni – con ciò si precisava il motivo delle sofferenze di cui dovevamo essere gli spettatori sin dall’inizio del secondo dramma: l’inevitabile agire a torto, quale carattere fondamentale dell’esistenza umana.
Quel torto era inevitabile, perché senza il fuoco l’umanità si sarebbe distrutta – e questa era, infatti, l’intenzione di Zeus, come ci vien detto esplicitamente nel Desmotes (232) – ma quell’inevitabile era un torto, perché il disporre del fuoco rientrava nella sfera di potenza di Zeus, sovrano del mondo.
La posizione di Zeus dalla parte della ragione e la posizione dell’umanità dalla parte del torto costituiscono il presupposto della situazione del Desmotes.
I dettagli del necessario agire a torto – del furto del fuoco – Esiodo li aveva illustrati, dicendo che Zeus (secondo la Teogonia) «non concedeva» il fuoco agli uomini, oppure (secondo le Opere e i Giorni) «destinando al genere umano penose sofferenze, egli nascondeva il fuoco».
Allora Prometeo «rubò» (έκλεψε) il fuoco, ingannando Zeus con un magistrale colpo ladronesco: ciò che di nascosto aveva rubato, lo portò via εν κοίλω νάρθηκι, nella cavità di uno stelo di narthex.
Un portatore di fuoco mascherato in modo dionisiaco, sembra, perché lo stelo di quella pianta serviva da tirso nel corteo di baccanti. Che Eschilo abbia sottolineato in modo particolare, o meno, quella possibilità dionisiaca: fatto sta che anche in lui il portatore di fuoco ingannava Zeus sotto l’aspetto dell’innocente portatore di narthex.
«A caccia vado della furtiva fonte di un fuoco di cui riempire la canna» – sono le parole di Prometeo nel Desmotes (109-10).
Un vero inganno da Prometeo. Esso spiega l’uso, tuttora vivente presso certi greci insulari, di conservare e trasportare il fuoco in questa particolare maniera. E questo è l’inganno che Cicerone, parlando del Prometeo di Eschilo, definisce come furtum Lemnium, il «furto di Lemno».
Luogo di scena dell’avvenimento sarebbe stato dunque, in Eschilo, l’isola di Lemno. E in questa localizzazione sembrava che il poeta tragico si allontanasse dalla tradizione esiodea. Infatti, secondo Esiodo, Prometeo rubò il fuoco a Zeus (Opere e giorni: 51), mentre la menzione di Lemno doveva far pensare al cratere Mosychlos, nella parte settentrionale dell’isola, nella sfera cioè di Efesto che aveva il suo santuario e la città Hephaestia. In quel luogo – si doveva pensare – Prometeo non avrebbe potuto rubare il fuoco a Efesto.
A una simile interpretazione del «furto lemnio» contraddice però Eschilo nel Desmotes. Efesto appare, al principio della tragedia, per incatenare Prometeo alla roccia. Solo che egli lo fa con la massima riluttanza, sotto la medesima costrizione cui soccombe Prometeo stesso (14-5):
non mi posso risolvere a legare con la forza il dio
consanguineo presso questo burrone travagliato dalle tempeste.
Queste non sono parole di chi è stato derubato, bensì di un dio che in tante situazioni mitologiche si è rivelato come un sosia di Prometeo.
In Omero (Iliade, 1: 592-4) Efesto stesso racconta il mitologema, come Zeus l’abbia gettato sull’isola di Lemno dalla cerchia degli dèi olimpici:
Rimasi un giorno intero per aria; e al tramonto del sole,
in Lemno caddi; e poco di spirito ancor mi restava:
la gente Sintia qui mi raccolse, dov’ero caduto.
Questa era dunque una delle versioni intorno all’arrivo del fuoco a Lemno. Difficile sarebbe il furtum Lemnium diversamente da come narra un’altra versione dello stesso fatto: Prometeo portò di soppiatto il fuoco a Lemno, rubandolo, per primo, da Zeus.
(Kerényi, Miti e misteri)