Il furioso Óðinn

Il nome di Óðinn è molto illuminante: esso deriva dall’antico nordico oðr, che Adamo di Brema rende con furore. Il termine tedesco corrispondente è wut (furore, rabbia: cfr. Bacone e l’origine dell’estetica moderna), quello gotico wôds (posseduto).
Come sostantivo, esso designa tanto l’eccitazione propria dell’ebbrezza, quanto il genio poetico (cfr. l’anglosassone wôth = canto) o il movimento del mare e del fuoco; come aggettivo, significa «violento, furioso, rapido».
Le parole indoeuropee imparentate alludono alla violenta ispirazione poetica e profetica: cfr. latino vates, antico irlandese faith, celtico ouateis.
Sicché, più che di eccitazione si dovrebbe parlare di «invasamento» o di «possessione».

berserkirLe bande di guerrieri travestiti da orsi o da lupi (berserkir) che, al seguito di Óðinn, ancora in tempi «recenti» scorazzavano nei boschi fuori da ogni legge, la dicono lunga sulla tenace resistenza del «selvaggio» a urbanizzarsi, dell’«animale» a umanizzarsi, del «naturale» a lasciarsi domare, reprimere o disciplinare da una qualunque «cultura».
La «furia» degli invasati da Óðinn è incontenibile: eccede, trabocca, straripa. Sempre.
Ogni guerriero è un lupo che solo Óðinn sa come imbrigliare nella rete delle sue magie «occulte». Il Lupo solo al Mago Guercio si arrende e, a quanto pare, non accade mai il caso inverso!

Óðinn «acceca» allucinando: artefice, Lui, del malocchio gettato contro Se Stesso specchiandosi nella fonte di Mímir – fabbro, Lui, del canto che incanta innanzitutto Se Stesso: esecutore e vittima della sua esecuzione, Óðinn s’immola alla Luce … più o meno come un bambino dinanzi allo specchio: chi è io? chi è lui? chi l’«ideato», e chi l’«ideatore»?
Óðinn, alla Luce immola tutto ciò che vede – a Lei sola, alla Luce, resta fedele, alla più manifesta delle Manifestazioni, alla più evidente delle Evidenze, alla più appariscente delle Apparizioni: alla Luce che nessuno più vede, dacché comincia a vedere le «cose» illuminate.

Dacché ne vede una di queste «cose illuminate», l’occhio non vede più la Luce. Vede la «cosa meravigliosa» (mirum oculo), vede il «miracolo».
Capisci? – è così che il lupo è messo in catene!
E Mamma Lupa, la senti?, per quanti lupacchiotti mette al mondo, tutti – a uno a uno – Lei li piange, perché li vede perdersi nei balocchi delle immagini allo specchio. Li vede i suoi narcisi farsi, da se stessi, lo stesso inganno del buon vecchio Óðinn.
Fissi, lo sguardo, nell’immagine di fronte – solo per un ultimo istante vedono la Luce Nera e poi … se ne scordano.

Là dove «insistono», proprio là il cordone che li lega a Mamma Lupa «è tagliato» una volta per sempre. Quel «taglio» non è che il primo d’una serie di «incidenze immaginarie», il primo anello di una nuova catena: l’anello su cui Óðinn getta il malocchio, prima ancora che lo Sciancato, lo Zoppo o il Monco, insomma il Suo Compare, al malocchio aggiunga la sua maledizione.
L’anagramma distorto – questa è la male dizione – la «menzogna», la «falsificazione», lo «spergiuro» per ingannare il lupacchiotto: fatti legare, è solo un gioco!

È solo una questione di tempi.
Malocchio e maledizione – il «male» dell’occhio, e quella della bocca – scandiscono due «momenti». Una sequenza.

MONOCOLO malocchio
MONCO-ZOPPO maledizione

È tutto quello che ci dice il Racconto. Proviamo a farne tesoro.
Il Racconto dice solo questo: c’era una volta un lupo che non si faceva addomesticare. Ci vollero due «dèi» per incatenarlo: il primo ci mise il malocchio (ce lo rimise, per essere più precisi, dal momento che se lo strappò dalla fronte per gettarlo nell’immagine allo specchio), il secondo ci mise la parola falsa, ci mise il «segno» al posto della «cosa», di modo che, più il lupo avesse «insistito» a tentare di liberarsi, tanto più stretto sarebbe stato il nodo della sua nuova «esistenza».
Adesso, il Lupo «esiste». O meglio, ciò che del Lupo «è fuori di Sé» a inseguire il «segno della cosa meravigliosa», adesso non è più libero fuorilegge al pascolo selvaggio nei boschi – adesso è «umano». Adesso ex-siste nel Racconto Umano.

Odino-bnSe Óðinn è, come si dice, un dio psicopompo, è dunque in questo senso che conviene intenderlo: come il dio che guida il lupo fino a metà strada sulla via dell’Umano. Lo guida nei meandri dell’immaginario, per vicoli e vicoletti, per anfratti, vie oscure e sentieri ininterrotti. Lo mena per il labirinto del linguaggio immaginario, fatto di immagini che non sono ancora «segni», in quanto ancora sciolte da una catena simbolica.
Il lupo al servizio di Óðinn non è ancora umanizzato – così dice il Racconto. Dice che è un mezzo uomo e mezzo lupo.
Capisci? – ci vuole la parola, per umanizzarlo fino in fondo. Bisogna che l’immagine su cui «insiste», il lupo la riconosca come un «segno». Occorre cioè che il «simbolico» gli schiuda i suoi «spero prometto e giuro». Che, facendosi largo nelle maglie dell’immaginario, il simbolo (come dire: la memoria, la Legge, la Regola delle ripetizioni) si faccia avanti con tutta la sua «aritmetica» potenza seduttiva.

Seduzione? Proprio così. Il lupo perde il pelo, ma non il «chiodo fisso» della sua stolta insistenza. Il lupo insiste: vuol essere sfamato, vuole soddisfazione per i suoi «ciechi istinti».
Ma questo non è «umano». Non ancora.
Questo è quanto Óðinn «consegna» agli altri dèi, perché ci provino loro a «umanizzarlo».
Óðinn, per conto suo, resta «mezzo animale». Solo un occhio, solo quello del malocchio, egli getta nello specchio della fonte. L’altro, se lo tiene fedele alla Luce, e perciò non concede «statuto di verità» a nessuna delle cose «illuminate».

L’occhio del malocchio è l’occhio «sedotto» del suo narcisismo. Quello che lo spinse in illo tempore a mettersi a testa in giù, a vedere il mondo «alla rovescia», a lisciarlo contropelo – e quello che ancora lo spinge «fuori di Sé», a «insistere» finché non trova soddisfazione.

Nell’indoeuropeo *Wothanaz, da cui sono derivati il norreno Óðinn, il germanico Wotan, l’inglese Woden (poi Godd), nonché il gotico Gautr o Gapt, si coglie ancora una traccia del verbo greco hôtheô (ωθέω = buttare, spingere, forzare, incalzare).
Come non pensare al nostro fottere? Non è forse il solo «atto» che rende allo stesso modo «famelico» l’uomo e l’animale?
Non è forse il Sesso ciò che più lo spinge a tenersi libero fuorilegge, e tuttavia allo stesso tempo ciò che più lo tenta a farsi mettere alla catena?
Bisogna dunque che quest’«atto» sia maledetto, per essere finalmente «umano».