L’anello maledetto del Tesoro

anelli-diavoloL’ho chiesto a chi di dovere. Ho chiesto al Mago di portarmi nel Paese delle sette magie. A chi potevo chiederlo, se non a Lui? a chi, se non al Mago che, delle sei diavolerie, ne sa sempre una più del diavolo?
Gli ho detto: Seduttore, seducimi! Incantatore di serpenti, incantami! Sono qui che striscio ai tuoi piedi! Un trucco, che ti costa svelarmi uno solo dei tuoi trucchi?
Non mi pare d’avere sbagliato indirizzo né persona, e tantomeno di avergli chiesto qualcosa che non fosse in suo potere – eppure lui, sai cosa mi ha risposto?
«Solo se insisti – proprio così mi ha detto: – solo se insisti a chiedermelo, ti ci porto!». Non ha detto no, ma non ha detto neanche sì.
E da allora, tutti i giorni, almeno una volta al giorno, eccomi qui a bussare alla sua porta. Eccomi a insistere: Maestro, quand’è che mi ci porti?

È amaro, ma è così. Mi sono ridotto a elemosinare un «miracolo» sulla porta di uno Sconosciuto. Roba da non crederci. Io sono il dottor Faust … e tutta la mia sapienza, non ho saputo resistere alla tentazione di rimetterla nelle mani di un diavolo!
E perché mai? mi vergogno a dirlo, ma è così: perché Lui può ciò che io voglio. Almeno, me lo auguro. Perciò ogni giorno, almeno una volta al giorno, busso alla sua porta.
Insisto. Oggi non mi apre? mi aprirà domani.

Se non l’avessi mai avuto, un «miracolo», non starei qui adesso a chiedere al Mago d’introdurmi nella scienza dei suoi abracadabra.
So bene che, se e quando il Mago mi concederà di giacere con la più bella del Reame, non si avvererà altro che il sogno che avrò già sognato. Se «miracolo» ci sarà, sarà solo se e quando riconoscerò d’esserne già stato «miracolato». Se insisterò là dove la mia insistenza sarà stata più attaccata. Dove sarà stata più legata e, insieme, più impotente a liberarsi – la mia fame di lupo. Dove sarà stata intrappolata nei fili di seta di una Ragnatela tanto sottile e fragile quanto incomparabilmente indistruttibile.

Faust-MefistofeleIl Mago ha ragione, fa bene a non aprirmi, se prima da me non comprendo che mi posso anche chiamare Faust, ciò non toglie che sono una macchina che fa i miracoli come tutte le altre prodigiose macchine «umane».
Una macchina miracolata, una tantum. Quel tanto che, però, se ci insisto – se mi fermo a gustare lo stupore che induce ogni papavero del giardino di Calipso, se ci torno sopra, se ci ripasso, se ci riprovo, se alla stessa porta busso ancora, se ancora chiedo, e a maggior ragione se elemosino la mia «parte» di umanità … allora sì che il Mago mi può suggestionare: io, nel Paese delle sue magie, ci sono già dentro, immerso fino al collo.
Dacché insisto su un trucco del suo magico repertorio, anch’io esisto.

Il Mago ha ragione: come potrebbe introdurmi all’abbiccì delle sue scienze occulte, se prima non comprendo questo? – se prima non mi capacito di esistere, di essere entrato nell’Umano, di essermi assoggettato, da animale che ero, alla Magia dei segni umani – alla Magia delle sette chiavi dei Misteri, con cui da che mondo è mondo gli «umani» aprono e chiudono i conti e i racconti della loro vita?

Il Mago ha ragione: è l’insistenza su un anello della catena magica, a fare la «materia prima» dell’esistenza umana dell’animale che vi ci insiste.
È caduto in trappola. È stato preso al laccio. Il Lupo.
Facciamo un gioco! – gli avevano detto. – Dai, prendi i tuoi giocattoli, e vieni a giocare con noi! vogliamo vedere se è vero che sei così bravo, come dici, a liberarti da ogni specie di catena!

Ero un lupo, adesso sono un automa incatenato alla ripetizione. Insisto a ripetermi, non faccio altro che riprodurmi. Sono tentato dall’idea che, a furia di ripetermi, una ripetizione dopo l’altra, arriverò infine a produrre un «plusvalore» da questo mio sfruttamento.
Un paradiso da questo mio inferno.
Fenrir-catenePerciò ripeto la tentazione, e ricado nel tentativo d’estorcere a me stesso altro da quello che sono. Insisto a tentare di dare esistenza a quello che non sono. Non ancora perlomeno. Insisto a rinviarmi a quando arriverò finalmente a esserlo.
Allora sì che il Mago dovrà aprirmi, penso.
Per forza.
Allora sarò un altro: sarò quell’altro a cui ha già aperto.

In-sisto – non ho altro modo che questo farmi incatenare per gioco dalle «sei cose insostanziali», che sono più o meno le «figure retoriche» che il Mago ha fuso nella sintassi del suo primo gioco di prestigio.
Mi ha detto: «Insisti!», mi ha detto: «Lupo, non perdere il vizio!».
E questo perché nel «segno» su cui mi dava da in-sistere (la porta chiusa di casa sua), io infine riconoscessi un anello della catena delle Sue sette magie.
Un anello, mi dicevo, che vuoi che sia un anello in confronto a tutto il Tesoro a cui appartiene? Sarà un segreto tutto mio, e non se ne accorgerà nessuno, se me lo prendo.

Non sapevo che su quell’anello c’era un antico malocchio – che era tabù aprire lo scrigno, rubarlo al Tesoro e portarlo alla luce (invidiosa) del Sole.
Non sapevo che era sotto un’antica maledizione – che era condannato a essere detto male, a essere ripetuto a ogni ripetizione peggio della volta precedente.
L’anello in sé pareva piccola cosa, non significava nulla: avrei saputo solo dopo, molto tempo dopo, che risentiva ancora delle bestemmie con cui il Fabbro l’aveva martellato per la sua Sposa. Delle vibrazioni, a volte degli scossoni, che gli trasmetteva l’andamento simbolico della catena a cui credevo di averlo scippato una volta per sempre.
E invece …

Invece, la ripetizione «riproduce» Se Stessa. Soprattutto le sue oscurità, le sue scienze occulte. Perciò, ogni mattino, appena fa giorno – come un cliente – busso alla porta del Maestro.
Insisto, e quanto più insisto (lo chiamano «automatismo di ripetizione») sulla porta del Fabbro, tanto più ci sono dentro, nell’Aperto. Ci sono immerso, fino al collo – nei giochi di prestigio della Fucina del Simbolismo Umano.
Tanto più «esisto». Quanto più mi fermo sul «segno», tanto più sono portato via dalla corrente dei conti e dei racconti che ci trovo «scritti».

Tutte chiacchiere.
Ci ho messo una vita per capire che il così tanto famigerato «nome del Padre» (il nome che mi fece da Padre di tutti i nomi che avrei poi nominato) altro non era che un segno, una parola, un anello della catena significante.
In hoc signo vinces!
in-hoc-signo-vinces-CopiaCosì fu detto, un’altra volta «male»: perché non a una vittoria conduce chi vi insiste – ma all’amara scoperta che esso, quel «segno», fu il trabocchetto in cui in e ex «si confusero», dentro e fuori si coprirono e si scoprirono a vicenda. Quel «segno» era il loro «anello di congiunzione», l’anello maledetto – dacché fu scippato al Tesoro [delle «sintesi connettive», direbbe la buonanima di Deleuze].
Da allora, si racconta, il Tesoro del Racconto non ha più un posto [fisso]. Sul Racconto incombe l’«antica maledizione» del Fabbro che quell’«anello» lo fabbricò per un’altra.
Da allora, tutti i narratori del mondo ogni mattina bussano alla Fucina del Fabbro. Vengono a fabbricare favole. Senza saperlo, ereditano invece la sua bestemmia.

Il Fabbro è zoppo, e perciò le sue parole zoppicano. Dacché ha fatto entrare il Sole nella sua Fucina, non è più «cieco»: adesso, il Fabbro «vede» che la sua Sposa non è là dove lui l’immaginava a occhi chiusi. Non è Lei, non è più Lei, adesso è un’altra – a cui il Fabbro vorrebbe essere il Forte, il Rapido, il Violento, l’Impetuoso per potersi ricongiungere. Vorrebbe essere un altro per stare con l’altra. Non questo che è, non lo scapolo, l’orfano o il vedovo che è, ma il congiunto dell’altra. Quello che sarà – l’altro che per l’altra saprà «ricostruire» la rete a cui legarla una volta per sempre.

… in questo lavoro che egli fa del ricostruirla per un altro, ritrova l’alienazione fondamentale che gliel’ha fatta costruire come un’altra, e che l’ha sempre destinata a essergli sottratta da un altro
(Lacan, Parola e linguaggio in psicoanalisi)

La Sposa, così come il Fabbro in principio se l’è fabbricata, la Sposa della Favola, è nata da un «ratto», e perciò chiunque con lei si voglia congiungere, la deve rapire a chi l’ha rapita al Fabbro. E il Fabbro la deve ricostruire ogni volta in modo che essa sia sempre «di un altro», e andarla a nascondere sempre «altrove» da dove ogni spasimante insiste a favoleggiare della sua presenza.
La Sposa della Favola non esiste. Esiste la Favola della Sposa. In tanto può esistere la Favola, in quanto la Sposa è stata, è e sarà sempre rapita. Solo nello spazio della sua «assenza» la Favola può insistere a ricostruirla, ogni volta fingendo di essere libera di ricominciare da capo.
Fingendo di confondere la Sposa col segno scritto nella casella che, a ogni suo rapimento, rimane vacante.