«Chi squarciò la corazza, chi mi scosse dal sonno?
Chi fece cadere da me lividi vincoli?».
Egli rispose:
«Il figlio di Sigmundr. Ha lacerato, or non è molto,
esanimi carni di corvo, la spada di Sigurðr».
«A lungo ho dormito, a lungo sono stata nel sonno.
Lunghe sono le sventure dell’uomo!
Óðinn ha voluto così: non ho potuto
spezzare le rune del torpore».
Sigurðr si mise a sedere e le chiese il suo nome. Lei prese allora un corno pieno di nettare e gli diede la bevanda che rafforza la memoria.
«Salve giorno, salve figli del giorno,
salve alla notte e alle sorelle!
Con occhi mansueti guardate noi quaggiù
e date a chi ora siede vittoria!
Salve Asi, salve Asinne,
salve alla terra benefica!
Facondia, saggezza a noi due, incliti,
e mani che risanano, finché vivremo!».
Si chiamava Sigrdrífa ed era una valchiria. Raccontò come due re venissero in guerra tra loro: uno di nome Gunnar dall’Elmo: era già anziano e validissimo guerriero. Óðinn gli aveva promesso vittoria, ma:
«Si chiamava Agnarr il secondo, fratello di Audha,
che nessuno mai volle prendere come protetto».
Sigrdrífa abbatté Gunnar dall’Elmo in combattimento. Ma Óðinn la punse con la spina del sonno per vendetta e le disse che non avrebbe mai più riportato vittoria in battaglia e disse che si sarebbe sposata.
«Ma io gli risposi che facevo voto di non sposare nessun uomo che potesse provare paura»…
(Canzone di Sigrdrífa, 1-4)