La cosa sorprendente è che a Roma e in Scandinavia il Monocolo e il Monco formano una coppia. Nei due casi la società umana o divina, che si trova in un pericolo mortale, è salvata dall’intervento successivo di questi due Personaggi.
In Scandinavia, gli Asi, constatando la rapida crescita del giovane lupo che li distruggerà, cercano per due volte di immobilizzarlo con lacci sempre più robusti che lui però riesce facilmente a spezzare. È dunque già tardi per far fronte al pericolo. Entrano allora in scena i due dèi sovrani.
Dapprima Óðinn, il «Padre di tutto» [Alföðr]: in virtù del sapere che ha acquisito scegliendo di perdere un occhio, più esattamente deponendo un occhio nella fonte di Mímir, egli dona agli Asi la formula di un materiale mai prima conosciuto.
Occorrono, per questo, ingredienti d’alta magia: egli invia un messaggero perché ordini agli Elfi oscuri di mescolare sei cose: rumor di passo di gatto, barba di donna, radici di montagna, tendini di orso, voce di pesce e sputo di uccello.
Risultato: un laccio sottilissimo, liscio e morbido come un filo di seta, ma indistruttibile.
Poi entra in scena Týr. Il Lupo è sospettoso e, come fosse un gioco, accetta di farsi cingere con questo laccio, che ha un aspetto fin troppo inoffensivo, solo se uno degli dèi caccerà un braccio nelle sue fauci, «quale pegno che non vi sarà inganno».
Nessuno fra gli dèi si offre, l’unico volontario è Týr. Il Lupo, preso in trappola, reso inoffensivo fino al Ragnarök, azzanna tuttavia il pegno che lo ha surrettiziamente convinto, gli dèi sono salvi e da quel momento Týr sarà ein-hendr, monco.
A Roma, l’esercito dell’etrusco Porsenna si accinge ad assalire la Città. Interviene allora Orazio soprannominato Coclite, o il «Ciclope», perché in tempi passati perdette un occhio o perché i suoi occhi sembrano formarne uno solo.
Non per magia né per scienza agisce, ma per un ascendente e una fortuna estremi.
Nella rotta generale (Tito Livio, 2: 10) egli si precipita alla testa del ponte attraverso cui si entra in Roma e che i Romani, approfittando di una tregua, stanno già demolendo.
Dapprima sbalordisce i nemici col suo prodigioso coraggio, poi, rimasto solo davanti al ponte, volge sui capi etruschi sguardi terrificanti e minacciosi, ora sfidandoli a uno a uno, ora schernendoli tutti assieme.
Per molto tempo nessuno osa reagire. Quindi i nemici fanno piovere su di lui un nugolo di giavellotti che si conficcano tutti nel suo scudo, mentre lui si ostina a presidiare il ponte muovendosi a grandi passi.
Alla fine, quando gli Etruschi stanno per scagliarsi contro di lui, il ponte crolla e Coclite raggiunge a nuoto la porta passando incolume sotto una gragnuola di giavellotti.
Il Ciclope ha così condotto tutto il gioco con le sue smorfie terrificanti che paralizzano il nemico e con una fortuna prodigiosa che lo ha reso invulnerabile.
Roma dunque non è presa d’assalto, ma il pericolo che incombe su di lei resta mortale.
È ora la volta di Muzio – non ancora Scevola, «il Mancino».
Parecchie sono le varianti, ma tutte presentano lo stesso meccanismo (Tito Livio, 2: 12; Dionigi di Alicarnasso, 5: 29; Plutarco, Publicola, 17): Muzio penetra nel campo di Porsenna per ucciderlo, ma, non riuscendo nel suo proposito, alla presenza del re stende la mano destra sopra un braciere dicendo (con scambio di giuramenti: Dionigi) che trecento giovani romani sono pronti a tentare, ciascuno per proprio conto, l’impresa che lui ha fallito.
Il timore e soprattutto l’ammirazione che queste parole, sostenute dal gesto, ispirano al re lo inducono a concludere la pace che salva Roma. E Muzio è diventato monco.
Tra il leggendario mito nordico e la «storia» romana, che è solo stupefacente, tutti i particolari sono diversi, compresa la forma di interazione dei due personaggi: in Scandinavia Óðinn prepara magicamente il laccio che Týr riuscirà a imporre al Lupo; nel corso dello stesso assedio Coclite impedisce che la Città cada nelle mani nemiche, prende tempo consentendo a Scevola di ottenere la pace che la salverà.
Ma il meccanismo è lo stesso: Óðinn usa il sapere trascendente acquisito con la sua antica mutilazione, così come Coclite, che era già guercio, terrorizza gli Etruschi coi suoi truces oculi (trattandosi di un monocolo, questo plurale non può che riferirsi agli sguardi dell’unico occhio rimastogli), Týr e Scevola sacrificano il braccio come pegno della veracità di una dichiarazione falsa, che induce il nemico, in un caso a lasciarsi legare, nell’altro a rinunciare a una vittoria sicura.
Anche la portata delle avventure è assai diversa nei due casi. A Roma ci sono solo illustri fatti di cronaca, che non hanno un valore simbolico dichiarato, né altro interesse fuorché la propaganda patriottica, né soprattutto altra conseguenza per i giovani che ne sono stati gli eroi se non gli onori conferiti loro una volta per tutte e quelle mutilazioni che, rendendoli inabili a ogni servizio e magistratura, li faranno cadere necessariamente nell’oblio.
In Scandinavia al contrario le due mutilazioni, ovviamente simboliche, sono quel che prima crea e poi manifesta paradossalmente l’attributo duraturo di ciascuno degli dèi, il signore del grande sapere e il garante degli accordi, del thing; esse sono l’espressione percettibile del teologema ereditato dagli Indoeuropei, il quale fonda la coesistenza dei due dèi maggiori, il che significa che l’amministrazione sovrana del mondo si divide in due grandi sfere, quella dell’ispirazione e del sortilegio, quella del contratto e della sottigliezza procedurale, o, per dirla in sunto, la magia e il diritto.
D’altra parte l’analogia del racconto romano e di quello scandinavo è tale da escludere che essi siano indipendenti e al contempo che uno derivi dall’altro. Si tratta effettivamente di un tema complesso e assai raro: dal 1940, da quando per la prima volta fu osservata la corrispondenza, molti ricercatori hanno perlustrato le mitologie dell’antico e del nuovo mondo per ritrovarvi, con la sua duplice valenza funzionale, questa coppia del Monocolo e del Monco: solo la letteratura di un altro popolo affine ai Germani e agli Italici, l’epopea irlandese, ha presentato qualcosa di simile benché sensibilmente più distante.
Eppure l’affabulazione romana e quella scandinava sono troppo diverse perché si possa supporre un passaggio, un prestito diretto o indiretto dall’una all’altra: il prestito avrebbe infatti conservato il quadro delle scene con particolari pittoreschi tralasciando piuttosto il significato, il principio ideologico del doppio intrigo, mentre è proprio questo principio – il legame delle due mutilazioni e dei due modi di azione – che sussiste da una parte e dall’altra, in scene che per il resto non hanno più alcun rapporto.
L’unica spiegazione naturale, dunque, è pensare che Germani e Romani ricevettero dal loro passato comune l’idea di questa coppia originaria.
Inoltre, poiché questa coppia ha più valore quando opera sul piano mitico sorretto dalla teologia della sovranità, è probabile che tale fosse la sua forma primitiva e che Roma l’abbia riportata dal cielo sulla terra, dagli dèi agli uomini, fra i suoi uomini, nella sua storia gentilizia e nazionale: il duplice evento salvatore conserva un’importanza decisiva, ma non si pone più agli albori dell’universo, né nella società degli immortali, né per fondare una concezione bipartita dell’azione dirigente; si pone agli albori della Repubblica, nella società dei Bruto, dei Valerio Publicola, degli Orazi, dei Muzii, e per suscitare attraverso i secoli, con esempi di abnegazioni straordinarie, nuove abnegazioni patriottiche.