Aveva solo nove anni

L’inconscio è quella parte del discorso concreto in quanto trans-individuale, che difetta alla disposizione del soggetto per ristabilire la continuità del suo discorso cosciente (Lacan)

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La casa natia di Dante

C’era una volta un poeta che, come tutti i poeti, aveva la passione per le rime e le assonanze. Una passione però un po’ più stolta del solito, sicuramente più antica, più ingenua e più sprovveduta di quella che di solito basta e avanza a fare un poeta.
C’era infatti in lui un surplus di genio poetico, una dose eccedente di mania, un sovrappiù di fantasia – che lo costringeva ogni volta a levarsi in volo, ogni volta più in alto, sulle ali delle sue parole.

Aveva nove anni!
Tienilo a mente – aveva solo nove anni, dico nove, il ragazzo sul quale doveva poi crescere questo poeta.
Perciò, se vuoi sapere di lui, lascia perdere il resto. Per un momento, dimentica tutto quello che sai a proposito di Dante e Beatrice. Un momento solo, fa’ finta di non sapere niente della Firenze del ‘200, e niente dei «rimatori» toscani, e meno di niente dei provenzali e dei siciliani, niente del trivio e del quadrivio, niente del dolce Stilnovo, e soprattutto niente di quella Grande Montatura che al secolo si chiama «storia della letteratura».

Quando l’avrai liberato di tutto questo «sapere» (a nove anni nessuno lo può sapere!), di tutta la poesia del nostro poeta, di tutte le rime e le risonanze, di tutta la sua Vita Nova non ti resterà che questo solo piccolo dettaglio certo: il «fatto» succede a un ragazzo di nove anni.
Il «fatto» non succede al poeta, è il poeta che «succede» al fatto! Il poeta è l’albero, la cui radice è il fatto che viene a sradicarlo dalla sua infanzia.

Basta con le solite chiacchiere! Fumo negli occhi non ne vogliamo più!
Perciò, se neanche tu ne vuoi, se vuoi pure tu «stare» dinanzi all’enigma-Dante senza risposte già confezionate, non hai che da meditare su questa sola «evidenza»: il poeta è poeta dacché si regge su un evento «dispari» della sua biografia infantile.
Sull’evento che a nove anni l’ha segnato della propria «disparità», che l’ha fatto sentire per la prima volta «impari» all’impresa a cui le sue stesse voci lo chiamavano.
Lo chiamavano a parlare tosco.
A parlare la lingua dei Fantasmi, la lingua che si delira, la lingua che s’invasa nelle sue rime e assonanze – tutte pari, tutte perfette, tutte compiute, tutte prodotte e consumate sul posto, tutte tranne una, tranne quella destinata a beatificare il trovatore che l’avesse trovata.

bambini-si-bacianoE allora, su, fa’ finta di avere pure tu nove anni. E che una mattina, verso le nove, sei per strada quand’ecco … il tuo sguardo stolto, il tuo sguardo ingenuo e sprovveduto, incrocia due occhi, e nello stesso istante si trova a esserne catturato.
Appena nove anni, e ti sta già succedendo «quella cosa».
Quella per cui la tua vita svolta, o come dice il poeta: si rinnova – ribaltandosi su se stessa. Trovandosi, tutt’a un tratto, asservita a un nuovo «comandamento». Rapita a una chiamata altrui. Chiamata, di colpo, altrove. Ma dove?

Aveva solo nove anni, un’età che non si prende sul serio.
Almeno fino a quell’«incrocio» lì – in cui lo sguardo intercetta la Medusa che lo pietrifica (della serie «passa l’Angelo e dice amen») – almeno fino a «quella cosa» lì che mette in subbuglio e gli stravolge i pensieri, il ragazzo è lui il primo a non prendersi sul serio.
Perciò, forse, ci è così facile sorvolare sulla sua età e affrettarci a trattare di questioni ben più serie!

E io invece insisto: aveva solo nove anni, non era serio e non aveva nessuna intenzione di diventarlo – finché una mattina, verso le nove, minuto più minuto meno, guarda un po’ che gli succede! uno sguardo, solo uno sguardo (uno però di quelli con cui ci si guarda a nove anni!) e la sua vita si trovò a essere segnata una volta per sempre.
Una volta per sempre, inondata di una luce dispari. Di una luce condannata a celarsi in quel che mostra.
Magari, il ragazzo avesse potuto sorvolare! Invece, eccolo lì a fissare quel «segno». A fissarsi su quell’oscura luce, su quella luce più che bianca.
A chi lo va a dire che è … e già, ma cos’è? è forse innamorato? si può chiamare amore questa «cosa» che succede a nove anni e di cui questo solo si può dire: che lo manda fuori di testa?
Ma di che si tratta?

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Incipit Vita Nova – manoscritto del ‘400

Se lo chiedi a Dante, ricorda che lo stai chiedendo, non al ragazzo di nove anni, ma al poeta che su quel ragazzo è cresciuto (la Vita Nova, l’ha scritta che aveva quasi trent’anni!). È probabile perciò che ti farà cadere nella sua stessa trappola: le magie «pitagoriche» del numero nove, i segni celesti dell’evento, le «benedizioni» che piovono dal cielo, la visita a domicilio dell’Angelo, il latino liturgico dei suoi messaggi in codice e tutto il repertorio immaginifico di cui i rimatori del tempo disponevano – non sono che le maglie della Rete, pardon: del Discorso trans-individuale, in cui è caduto il pesciolino, ingenuo e sprovveduto.
È caduto in un dialetto che gli parla intorno, s’è perso in un racconto che lo trascende, s’è acconciato a un sapere linguistico di cui non sapeva ancora nulla, quando la «cosa» gli è successa. E di cui continua a non sapere, ancora adesso che scrive la Vita Nova.

Sono passati quasi vent’anni da allora!
Aveva nove anni! solo nove, dico nove, anni – neanche compiuti … quando gli successe, una mattina, di essere «sradicato» dalla sua spensieratezza e gettato nel Campo dei miracoli. Solo nove anni, quando fu allucinato dal Grande Miraggio. Magari avesse avuto al suo fianco il Gatto e la Volpe: avrebbe avuto qualcuno a cui confidare i suoi «zecchini», invece di doverli delirare da solo.

Vent’anni dopo, benché «sovrascritto» e in qualche modo «addomesticato» dalle parole del poeta, il Fantasma se pure spostato nel Paese dell’Arte, è però ancora vivo, e potente è ancora la sua dominazione. Perché non è ancora trasparente. È ancora in attesa che il poeta trovi le parole degne, le voci capaci di «attraversarne» il velo.
Vent’anni dopo, Dante non le ha ancora trovate. Le troverà, a quanto pare, solo in paradiso. Solo quando riuscirà a pareggiare la «disparità» accusata nell’incontro col Fantasma a nove anni.
La pareggerà sciogliendola nel balbettio d’infante – rimettendo cioè a posto la radice delle sue parole. Restituendo le sue parole alla Madrelingua. Restituendole più ricche di poesia, perché più povere di dottrine e catechismi vari.

E allora basta con le chiacchiere! Basta con le solite sviolinate a Mastro Dante. Voglio contrarre con lui un debito personale. Voglio dovergli una scoperta che lui ha riservato – non ai dantisti – ma solo al trovatore che fosse andato a cercarlo ai confini della Parola «ignorante e analfabetica».
piumaSolo colui che si fosse avventurato fino all’insensatezza della Sorgente del suo dire. E una volta là, gli domandasse il permesso di rimettersi alla finzione di non sapere niente di lui, in modo da saltare tutte le sue opere e questi soli due frammenti lasciare che gli parlino: il primo capoverso delle visioni della Vita Nova, e gli ultimi versi dell’ultimo canto del cigno di paradiso.

Allora sì che potrà abbracciare in un solo colpo d’occhio il fatto e l’antefatto «linguistico» di tutti i suoi deliri, poetici e non.
Vedrà che, il nostro Dante, è stata una cicogna a portarlo dal cielo nel mondo della Parola Umana.
Saranno all’incirca le nove di un mattino qualsiasi quando una piuma, volando via dal suo vestito di Sposa, gli sembrerà dire: Su, poeta, cantami! Canta e riportami in cielo, ché questa non è casa mia!