
È proprio un mistero.
La questione intorno al significato della parola «mistero» è tuttora avvolta nel mistero. Da dove? – da quale «illuminazione», e chi, ha tratto il concetto di «mistero»? e in quali (suppongo drammatiche) circostanze l’ha scoperto?
E poi, cos’ha «scoperto»? ha forse scoperchiato il mondo, dopo di che non ha più visto niente? ha saputo di non sapere, o roba del genere?
Vorremmo tanto sapere se la parola «mistero» si porta scritto addosso solo un ingenuo sofisma, o se invece non sia il Sofisma stesso a scrivere e tatuare la sua ambiguità sulle parole di cui facciamo uso – e «mistero» è sicuramente una di queste.
Cosa segreta. Dal concetto di «serrare, chiudere» [le labbra] – è così che recita il dizionario! Ciò a proposito di cui si tiene la bocca chiusa, questo sarebbe il mistero.
C’è il mistero doloroso, e c’è quello gaudioso: c’è, ma dire non si può da dove vengono dolori e gioie. Emozioni e sentimenti nulla sanno, e nulla possono mai sapere della loro fonte, o del loro Movente.
Mistero (del movimento).
Ma il mistero, in sé, è forse Quieto?
Possibile che esso sia, insieme, quieto e Inquietante?
La parola «mistero», noi la ereditiamo dalla lingua che si parlava una volta ad Atene. La si usava allora per dire «le feste», i «giorni festivi» del calendario, quelli in cui era lecito sospendere le attività «culturali» e abbandonarsi alle passioni «naturali».
Abbandonarsi alla celebrazione del Trionfo del Movimento Disordinato e Caotico, questa era la Festa – una volta, nell’antica Atene.
Dico l’Atene che dovette essere prima dell’Arte, prima della Tragedia, prima della Rappresentazione ateniese del Mondo.
Dico l’Atene antica – quella ancora in ascolto dell’Inconscio che parla, quella ingenua e infantile Atene che ancora conserva le sue «memorie selvagge», sebbene abbia già cominciato a tradurle in «riti» e «miti».
Dico l’Atene «misteriosa», l’Atene «festaiola», l’Atene sfrenata che fa baldoria, l’Atene ubriaca di vino, l’Atene maniaca, l’Atene invasata, l’Atene sopraffatta dai suoi «istinti» stagionali.
Dico l’Atene in cui ancora ci è dato, se non vedere, almeno immaginare cosa «nascondono» i suoi Segreti. Cosa «festeggiano». A chi «fanno la festa», e con tale slancio ed eccitazione da essere pronti a mettere a ferro e fuoco la Città, la sua Storia, la sua Cultura.
I «misteri» erano i giorni rossi del calendario. I giorni di fuoco. Di fuoco naturale, di fuoco distruttivo di usi e di costumi, di fuoco trasgressivo di norme e di leggi.
Ogni lavoro sospeso – ogni «umanità» mandata a quel paese, e via tutti alla Festa. Tutti a farsi organi della Macchina della Festa, tutti a farsi trascinare nel suo movimento, nella sua Metafora. Tutti a farsi avvitare nell’ordine del Tempo.
È il Tempo che comanda la Festa. È il Tempo che inocula le sue stagioni nei corpi dei suoi sudditi. Inietta nelle loro vene le sue macchinazioni. È il Tempo che è perverso!
È sull’«ordine del Tempo», sull’ordine ontologico con cui il Tempo dà e toglie a noi la vita, che i Festaioli dei misteri ateniesi facevano sfilare in processione la Grande Macchina della loro Polis (quando la polis non era ancora la Polis, ma una tribù, un gruppo) «in cammino» dal suo misterioso luogo di origine e provenienza, alla volta dell’«umano».
Immaginare la Macchina che macchina «seduzione» e «fame», l’Inconscio che produce i suoi «desideri».
Questa era la Festa. Imitare la Macchina, riprodurne le macchinazioni, rifarne punto e a capo le eccitazioni, ripeterne le «stagioni» e le «pulsioni», lasciando che fossero esse a trovarsi a «essere» essendo gruppo, popolo, intreccio di flussi e di tagli di desiderio, direbbe Deleuze, commistione «governata» solo dall’«ordine del Tempo», confusione disposta a riconoscere come legittimi solo i «privilegi d’anagrafe» (del nuovo sul vecchio, del giovane sull’adulto, del bambino sull’uomo).
Il Tempo fa festa. Il Tempo ci fa la festa. Ma non siamo noi i festeggiati. E neppure più i festaioli di una volta.
Oggi, la Festa ci è divenuta così «misteriosa», perché – come già ebbe a dire Aristotele a proposito della tragedia attica – c’è stato tutto un darsi da fare dei governi della Polis (dei Tiranni del Gruppo) a fare pulizia, «catarsi» ed esclusione, alla lettera, dell’«osceno» (ob – scena: ovvero, dal lato opposto a quello scenico, alle spalle dunque dello spettatore).
C’è stato tutto un tramare alle nostre spalle, già da molto prima che noi venissimo al mondo.
Come fa un bambino, in quattr’e quattr’otto, a raccapezzarsi in questo manicomio?
Mistero, anche questo.
Perché anche questo non raccapezzarsi del bambino, è pur essa una Figura macchinata dal Tempo. Non meno di quella del Tiranno, o di qualunque altro festaiolo.
Vengono tutte da lì, le nostre emozioni. Dalla mistura misteriosa che la Festa consente. Dai Fantasmi di gruppo, che solo nel gruppo vivono – i Maghi, gli Stregoni di cui la Metafora inconscia si serve, per prendere al laccio le sue prede. Per sedurle, e farne altrettante seduttrici. Organi del suo «corpo», servi della sua «dominazione».
Perché la Festa è sempre un gioco a giocare a padrone e sotto.
E le Figure della Festa, per essere, hanno bisogno solo di uno che si assoggetti alla loro Potenza.
Mistero delle due «serie parallele». Di qua i maschi, di là le femmine. A sinistra i vinti, a destra i vincitori. Soggetti e assoggettati a uno Stesso Ordine. Padroni e sotto.