Via dal tetto, presto!

ma per il vergine capo
reclino, io poeta notturno
vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,
io per il tuo dolce mistero
io per il tuo divenir taciturno
(Dino Campana)

salmoni… il Racconto non è eterno. Ma neanche temporaneo.
Come l’amore, il Racconto è intempestivo: il tempo lo prende sempre fuori tempo, lo prende in contropiede o contromano, lo prende di striscio o di traverso, ora alla dritta ora alla rovescia, sempre però e solo per farne un «prelievo» – e di ciò che ha «prelevato» un veicolo di fuga nell’estemporaneo.
Il Racconto è sempre contro la furia del tempo. Contro «questo tempo» che infuria il Racconto è sempre in rivolta. Sempre indisponente – perché sempre indisponibile a rassegnarsi alla sua ferrea Legge irreversibile.
Il Racconto non ci sta. Le smentite che il Tempo gli infligge, il Racconto trova sempre un modo (che è sempre lo stesso modo) di smentirle a sua volta. Un modo, non si dice così? – di «ingannare il tempo». Di rispondere per le rime e ricambiare l’inganno del tempo.

Sarà pure un passatempo, il Racconto scommette di fartelo passare alla maniera del salmone: andando controcorrente, a ritroso come Pollicino, sempre all’indietro, come Cappuccetto rosso ritornando a capo, di nuovo alla Casa della Vecchia Nonna – sempre alla Radice delle parole che sono le stelle del suo cielo.
Il Racconto è perciò sempre un brillare «etimologico». Sempre un rinascere e rifiorire, punto e a capo dalle sue radici, della Parola dell’Inizio.
Nient’altro interessa al Racconto: solo l’Eterno Ritorno dell’Inizio alla Parola, e della Parola al suo Inizio.

Van Gogh-Girasoli
Van Gogh – Girasoli

Perciò il Racconto ogni giorno torna a nascere e morire, mille volte muore e rinasce, e incessantemente sorge e tramonta il sole che riscalda le sue parole. Ciò che al tempo ha sottratto al mattino, il Racconto la sera non può fare a meno di restituirglielo.
Ma non c’è problema, perché non è «questo tempo qui» che il Racconto sa o vuole far fruttificare.
È l’intempestivo, l’estemporaneo, il fuori tempo e luogo il miraggio che a sé attrae i girasoli di tutti i suoi giardini, e li chiama ogni giorno di nuovo a scoprire nel tempo il tempo che va contro Se Stesso, il tempo che fa i dispetti a Se Stesso.

L’intempestività del Tempo – ecco il mito del Racconto! ecco a cosa anela la Metafora!
Il Racconto pazientemente aspetta ciò a cui la Metafora si affretta. Forse è questa la loro sola differenza «coniugale». Hanno bisogno l’uno dell’altra, di congiurare assieme, di sostenersi a vicenda. Ma col tempo finiscono solo per scongiurarsi reciprocamente.
Il Racconto trama (o meglio: crede di farlo) alle spalle della Metafora, e questa a sua volta nell’ombra ordisce i vuoti, a volte i precipizi, in cui a una a una attirare le parole del Racconto, e così ridurle al Suo servizio.

La Metafora si annida nel cuore del Racconto, ne detiene le chiavi e vi esercita il suo potere occulto. La Metafora è la Forma Vuota, l’Imperatrice inconscia di tutti i segni linguistici, della loro genesi e del loro tramonto. Il movente di tutti i loro movimenti. E anche il loro Lete perenne.
La Metafora scorre lungo la trafila del tempo e a essa intorno, come dervisci, ruotano i dadi di tutti i racconti. Tutte le parole del Racconto sono estratte a sorte, mentre si avvitano «secondo l’ordine del Tempo» che a ciascuna di esse ogni giorno muta e rinnova l’aspetto: significato e significante sono ogni giorno, silenziosamente, trasportati più in là.
Differiti e differenziati, inesorabilmente.
E tuttavia il Racconto non s’arrende. Perché, pure nella perdita continua di stabilità delle sue parole, il Racconto confida di trovare comunque un’altra moneta del suo tesoro. Il Racconto punta sulla sua capacità di rimanere aperto all’irruzione di un altro istante intempestivo.

dado-vite

Intempestivo, per intenderci, è ciò che ex abrupto «cade nel tempo»: senza presupposti, cause, colpe o meriti precedenti, ciò che irrompe all’improvviso, che assale e coglie a sorpresa, ciò che mentre «accade» nel tempo, accadendo, lo «incide», lo segna, vi mette una tacca e sigilla nella sua cera l’impronta di una «novità» o «differenza», di una nuova «ignoranza» punto zero, di una immacolata sprovveduta incoscienza che provvede a modo suo a registrarsi a un’anagrafe, di una incoscienza analfabetica che però sa a modo suo leggersi e scriversi, e sa dagli «estemporanei» che ha archiviato estrarre addirittura un «codice», e che questo codice sa a modo suo usarlo per «codificare» un altro tempo.
Scippare quest’altro tempo al tempo, questo è il passatempo del Racconto. Farsi arrotare dalla Metafora, questa è la sua passione. E guai a chi gliela sciupa!
Dov’è lo scandalo, se chi non ha tempo da perdere, è perché perduto lui nel tempo, e non ha voglia di ritrovarsi?

Se è a una «perdita di tempo» che aspira il Racconto, è perché solo perdendo questo tempo qui, di cui si dice che è denaro, solo giocando a perdere a questo tavolo qui dove si mangia, e dove chi mangia vince in premio la sua sopravvivenza affamata – è solo così e non altrimenti che il Racconto può guadagnare un altro tempo: il tempo mitico, il tempo musicato, il tempo poetato, il tempo dell’Arte di tutti i salmoni, il tempo dei ritornelli dopo le strofe, dei rimpatri dopo gli esili e le fughe, il tempo che ripiega su Se Stesso, il tempo che s’interroga intorno a Se Stesso, il tempo che si pente di Se Stesso, il tempo che si rincresce della Sua Crudele Piatta Rettitudine, il tempo che si ribella alla sua Legge di gravità, il tempo che, infine, arriva a mettersi le ali e a spiccare il volo fuori dal tetto della sua stessa Casa.
Il tempo che vuole respirare aria fresca. Aprite le finestre! Il tempo che se ne vuole andare, che vuole andare a vivere altrove, il Tempo vola.
Bisogna perdersi mille e mille volte, e poi ancora altre mille volte, nei suoi volteggi, per afferrarne il minimo di un solfeggio.
Bisogna annegare nelle sue pieghe più oscure, per darsi lo slancio necessario a volare su fino alle nuvole.

Ogotemmeli
Ogotemmeli

«Il tabacco dà lo spirito giusto»: sento ancora nell’orecchio l’eco delle parole del cieco Ogotemmeli.
Mi dice che i miti della sua Gente, come di tutte le Genti di babele, sono fatti di parole fumose.
«Aspira!» – mi dice – perché «solo fumando», mi dice che posso ascendere al di sopra della lordura.
«Le parole che ti sto dicendo – mi dice – le ho prese là», e col dito mi fa segno al bidone della spazzatura, all’uscita dalla cucina.

Non abbiamo mai parlato, io e lui. Abbiamo solo fumato una volta assieme. Eppure da quella volta continuo ancor oggi a vedere il mondo avvolto nelle volute di fumo che escono dalla sua pipa.
Mi torna a mente, chissà come mai, la notizia (credo riportata da Strabone) di quello strano soprannome con cui un tempo erano chiamati i Misseni: «coloro che camminano nel fumo».
Cammino anch’io con loro.
So che il cammino non è eterno, ma neanche temporaneo.
So che, come l’amore, va e viene, a volte si vede e a volte scompare.