In una delle sentenze milanesi pronunciate alla fine del ‘300 – quella contro [la strega] Pierina – si dice che Oriente riportava in vita i buoi (che erano stati uccisi e divorati dalle sue seguaci) toccandone con una bacchetta le ossa chiuse nelle pelli.
Ora, secondo l’Historia Brittonum di Nennio (826 circa), ripresa nella Legenda aurea di Jacopo da Varazze (redatta alla fine del ‘200), un miracolo analogo, basato sulla risurrezione, a partire dalle ossa, di certi buoi uccisi sarebbe stato compiuto da San Germano di Auxerre in Britannia, durante l’opera di conversione dei Celti […]
Il ripresentarsi in Irlanda, o in un’area evangelizzata dai monaci irlandesi come le Fiandre e il Brabante, dello stesso tema agiografico – la risurrezione di cervi o di oche dalle ossa – testimonia ancora una volta la presenza di un sostrato celtico.
Fin qui nulla di sorprendente. Ma nell’Edda di Snorri Sturluson (prima metà del ‘200) il prodigio è attribuito al dio germanico Þórr, che risuscita alcuni capri (animali a lui sacri) percuotendone le ossa con l’arma di cui è, secondo la tradizione, provvisto: il martello.
Il rapporto tra queste versioni, quella celtica cristianizzata e quella germanica precristiana, non è chiaro. La seconda deriva dalla prima? o è il contrario? oppure entrambe derivano da una versione più antica?
Ciò che induce a propendere per quest’ultima ipotesi è la distribuzione geografica di miti e riti imperniati sulla raccolta delle ossa (per quanto è possibile integre) degli animali uccisi, allo scopo di farli rivivere.
Tali miti sono documentati nella regione alpina, dove il prodigio è compiuto dalla processione dei morti o dalla dea notturna che la guida. Tra i molti nomi che venivano attribuiti alla dea c’era anche quello di Pharaildis, la santa patrona di Gand che secondo una leggenda aveva risuscitato un’oca raccogliendone le ossa.
In un ambito culturale del tutto diverso, tra gli Abkhazi del Caucaso, a ridare vita alla selvaggina uccisa (anziché ad animali da lavoro come i buoi) è una divinità maschile della caccia e della foresta.
A queste credenze, documentate in svariatissime culture (anche nell’Africa continentale) si ispirano alcuni riti praticati dalle popolazioni di cacciatori che vivono nella sterminata fascia subartica compresa tra la Lapponia e le isole settentrionali dell’arcipelago giapponese, abitate dagli Ainu. Le ossa della selvaggina più grossa (orsi, alci, cervi) vengono ammassate in pile, raccolte in ceste o poste su piattaforme; talvolta le pelli vengono riempite di paglia o di trucioli. A metà del ‘700 gli sciamani lapponi (no’aidi), a cui era affidata la preparazione delle vittime per il rito, spiegarono ai missionari danesi che le ossa andavano raccolte e ordinate con cura, perché in questo modo il dio a cui il sacrificio era rivolto avrebbe ridato vita agli animali uccisi, rendendoli ancora più pingui che in passato.
Testimonianze del genere sono numerosissime. Gli Jucaghiri della Siberia orientale, per esempio, raccolgono le ossa di orsi, alci o cervi perché resuscitino: poi le depositano su una piattaforma insieme ai crani riempiti di trucioli («adesso ti mettiamo il cervello», dicono) con un pezzo di legno infilato al posto della lingua […]
In una saga tirolese una ragazza, prima squartata e poi resuscitata con un ramo d’ontano al posto di una costola viene chiamata «strega di legno d’ontano» […]
I Lopari, altra popolazione siberiana, sostituiscono le ossa mancanti della selvaggina con quelle del cane che se l’è mangiate […]
Gli Ainu, che abitano le isole settentrionali dell’arcipelago giapponese, raccontano che se un orso mangia un uomo, viene costretto dal capo degli orsi a risuscitarlo leccandogli le ossa; ma nel caso che l’orso abbia mangiato all’uomo l’osso del mignolo, deve sostituirlo con un ramo.
In questa serie, culturalmente eterogenea ma morfologicamente coerente, vanno inserite le due versioni scozzesi della fiaba di Cenerentola che includono tanto la raccolta delle ossa quanto la successiva risurrezione. In entrambe l’animale resuscitato (si tratta, rispettivamente, di una pecora e di un agnello) zoppica: nel primo caso l’eroina ha dimenticato di raccoglierne gli zoccoli; nel secondo manca uno degli stinchi posteriori.
L’analogia col capro di Þórr è evidente. Ma la variante celtica dell’animale zoppicante […] consente di generalizzare la credenza […] secondo cui il lupo mannaro a cui veniva mozzata una zampa riprendeva subitamente spoglie umane. Chi va o torna dall’altro mondo – animale, uomo, o un miscuglio di entrambi – è contrassegnato da un’asimmetria deambulatoria.
La serie che abbiamo ricostruito ci permette di cogliere l’equivalenza simbolica tra la zoppaggine dell’animale risuscitato e la successiva perdita della scarpetta da parte di Cenerentola […]
Anche Cenerentola può essere considerata (come Þórr, san Germano, Oriente) una reincarnazione della «signora degli animali». I suoi gesti di pietà verso le ossa (seppellirle, innaffiarle) hanno un effetto analogo al tocco magico del martello di Þórr o della bacchetta di Oriente. In una versione della fiaba raccolta a Spalato, che presenta il tema della risurrezione in forma attenuata, la somiglianza è ancora più stretta: la figlia più piccola tocca con una bacchetta il fazzoletto che racchiude le ossa della madre uccisa, ridando loro la voce.
L’esaltazione della piccolezza del piede femminile, su cui s’impernia l’intreccio di Cenerentola, è stata collegata alla consuetudine, praticata dalle classi elevate in Cina, di fasciare strettamente fin dall’infanzia i piedi delle donne. Si tratta di una congettura plausibile. D’altra parte, si sa che la più antica tra le versioni conosciute della fiaba di Cenerentola, venne redatta da un dotto funzionario, Tuang Ch’eng-Shih (800-63), che l’aveva sentita raccontare da uno dei suoi servi, originario della Cina meridionale.
Raccogliendo le ossa di un pesce miracoloso, che è stato ucciso dalla matrigna, la protagonista – Sheh-Hsien – ottiene un paio di sandali d’oro e un vestito di penne d’alcione, con cui si reca alla festa dove incontrerà il re. È stato notato che i sandali, verosimilmente poco diffusi tra le popolazioni aborigene della Cina meridionale, erano invece un elemento tipico dell’abbigliamento degli sciamani. Si è supposto che tanto l’epiteto «bella come un essere celestiale» riferito alla protagonista, quanto il vestito di penne d’alcione alludano a una favola a sfondo sciamanico – quella delle fanciulle-cigno – proveniente con ogni probabilità dall’Asia settentrionale.
(Ginzburg, Storia notturna)