O Sole mio … tu stoni per gelosia!

alcovaChe fosse «dolore» quel che il Sole «provò» nel vedere Venere a letto con Marte, Ovidio lo vada a raccontare ai fessi. Noi non ci crediamo. Noi, uomini di mondo, sappiamo che fu solo gelosia.
Il Sole non se ne può fregare di meno della «fedeltà» di Venere a Vulcano. Ciò che l’ha indispettito è, piuttosto, l’aver visto un altro cogliere il fiore che lui, coi suoi raggi, aveva fatto sbocciare alla luce. Né Marte né nessun altro al mondo avrebbe mai goduto della visione di Venere, se lui, il Signore della Luce, non l’avesse vestita del suo splendore.

Non può essere, insomma, che questo solo il Sole recrimini: che l’illuminata conti per qualcuno più della Luce che l’illumina? – che l’ecciti la creatura più del suo creatore?
È questo «più» che, più tagliente di una lama, lo ferisce, lo punge e lo mette in agitazione. E agitato com’è, il Sole come un ubriaco barcolla, oscillando da un tropico all’altro. Questo è quanto preme dire al Racconto.
Il Racconto ci tiene a dire che, da quel momento – dal momento in cui prese coscienza dell’uso «distorto» che Venere faceva della sua luce – il Sole si mise a oscillare su e giù sull’equatore. Quell’«evento», dice il Racconto, risale alla Notte dei tempi, a molto prima che Fetonte facesse «deragliare» il carro del Sole dalla Via Lattea.

Da allora, agitato dalla gelosia, il Sole – ogni volta che si trova a illuminare lo «scempio sessuale» di Venere – come inorridito dalla visione, sobbalza e inverte il senso di marcia. È quello che vediamo ripetersi ogni anno al Solstizio: il Sole al colmo della luce, d’un tratto retrocede, scende e ritorna sui suoi passi, per allontanarsi dal luogo del delitto, dalla «camera nuziale» della Bella «illuminata» in flagranza di reato.
S’allontana per mettersi a distanza da ciò che i suoi raggi illuminano: a quella distanza da cui lo «spettacolo» non gli brucia più. Almeno, non più come una volta. Come quella volta là.

Non c’è, da allora, una qualunque nostra gelosia che non rinnovi il «gesto» con cui il Sole, quella volta là, si ritrasse per temperare il bruciore della sua ferita, per mitigare l’ardore della sua propria fiamma.
Questo è quanto dobbiamo noi uomini al Sole: l’eredità di una gelosia.
Perché, se il Sole non fosse giunto a vedere Venere in azione «coniugale» con Marte, mai un velo avrebbe appannato la sua brace ardente.
Avremmo una «febbre [di lussuria] eterna». E perciò, nel frattempo, neanche niente da dirci.

Savitrî

In India si racconta che la prima figlia del Sole fu Sâvitrî, e che dopo di lei il Sole ne ebbe una seconda, Tapatî. L’Avvampante e la Riscaldante, sarebbero più o meno i loro nomi tradotti nella nostra lingua. L’Ardente e la Tiepida, per capirci. La figlia del «fuoco che brucia», e quella della «fiammella che dà calore».
Una è l’incandescente, l’appariscente, la Focosa – che allucina e abbaglia, che acceca e folgora chi la guarda. L’altra è appena una scintilla, la vedi e non la vedi – è la vaga luminescenza di ogni focolare, è il tepore (il tapas) del fuoco di cucina, che nutre chi l’accende e sostenta chi l’alimenta.

La prima è fuoco nei capelli, ciocca d’oro brillante, treccia di mille fili ardenti su per cui lo Spasimante può arrampicarsi fino al cielo empireo della lussuria, e lassù farsi incenerire nella brace dell’amplesso. Per informazioni, rivolgersi alla falena!
L’altra è fuoco nelle mani, è calore che emana dalle pietanze che le sue mani servono in tavola, dalle tenerezze che riservano allo Sposo in camera da letto, dalla modestia e dal pudore delle sue virtù (a prima vista) solo di cuoca e di sguattera.

Dimmi: hai mai sentito parlare della «doppia» Sophia dei cabalisti? O della «doppia» Ginevra, per non dire della prima e della seconda Isotta? Ti è giunta mai voce della storia della prima e della seconda principessa della Roccia Gialla, che di nome fa sempre Acyrûxs?
Quella Roccia Gialla solo il Principe Azzurro la poté scalare. Il Principe, novello Prometeo, la scalò per portare giù da noi appena una scintilla del Fuoco Celeste. Appena una fiammella azzurra, una foto sfocata della Principessa, ma in ogni caso la Sposa perfetta per il fratello gemello Epimeteo!

Che enigma! Che labirinto!
Ci manca solo che un’altra Sposa venga su nientemeno da un fuoco quasi spento, e che dalla cenere casomai di colpo spunti una Cenerentola!
È perciò consigliato nel labirinto entrarci solo a chi vuole farsi una mezza idea, e niente di più, dell’oscillazione termica dei suoi propri «crimini» sentimentali.

Per es. cominciando col domandarsi: chi è che davvero è «criminale»?
È Venere che a suo piacimento si concede a Marte? o è il Sole che va a dire a Vulcano d’aver visto la sua sposa a letto con un altro?
Chi dei due ha realmente preso un abbaglio? Chi si sbaglia: chi asseconda la sua natura di Seduttrice, o il Sedotto rimasto a bocca asciutta?

Se il nostro mondo è zoppo, se ci fu in illo tempore qualcosa, che so?, una pietra dura (meglio sarebbe dire: una rima petrosa) che lo fece inciampare, fu la gelosia del Sole! Questo dice il Racconto. E dice che, da allora, il mondo che questo nostro Sole illumina, gode di un beneficio maledetto.
Vulcano-EfestoProprio così. Il Racconto dice che il nostro mondo, per non cadere nel vuoto, è costretto ogni giorno a fare le acrobazie, ora sopra ora sotto l’equatore, per raddrizzare il torto ed espiare il male racchiuso nella «dizione» che il Sole riservò al «tradimento» di Venere.
Il torto suo fu di chiamarlo «tradimento». E il male fu di tramandarlo a Vulcano con parole che di fatto una sola cosa tradivano: la gelosia dello spione, l’egoismo nudo e crudo del delatore!
Parole azzoppate dalla gelosia, furono quelle del Sole!

E poi ci domandiamo com’è che i Greci avessero adottato come dio un Fabbro zoppo?! Un dio «scartato» dagli altri dèi, anzi: preso a calci e scaraventato giù dall’Olimpo!
Non è scandaloso che essi l’abbiano mantenuto nel loro pantheon? E a quale scopo, se non perché il Fabbro era stato il primo a essere azzoppato dalle parole del Sole?
Si narra che, alla terribile notizia, il maglio che stava per martellare sull’incudine, gli cadde di mano e gli s’abbatté su un piede. Fu allora che la maledizione divenne addirittura una bestemmia.
Vulcano la fabbricò per farne una rete di lacci e di catene, in cui imbrigliare la «fregola» della sua Sposa Incontinente. Martellò sull’incudine il suo furore. Lo scandì di giambi anapesti e piedi zoppi. Ad libitum.

Il Racconto solo a questo ci consegna: a scongiurare la maledizione (ma sì, chiamiamola col suo nome: l’infamia!) gettata dal Sole su Venere, e dal Sole tramandata a Vulcano perché la scandisse nella sua fucina.
Se i Greci lo raccontavano, era per riconoscere la zoppia in tutte le parole storpiate dal Geloso. Per captare le salite e le discese termiche delle nostre gelosie.
L’ho vista coi miei occhi! – eccole, le parole dette male dal Sole. Le parole dove il Racconto zoppica.

Perché il Racconto questo tramanda di Sé: che dacché le maledisse il Sole, le parole del Fabbro divennero fatali a tutti i fabbri del Racconto, d’ogni tempo e luogo. Da allora il Racconto è diventato, come il mondo che racconta, zoppo e ambiguo.
Ambiguo, alla lettera, come una fiamma a due corni, e perciò cornuto. Sì, cornuto è il Racconto dacché il Sole tramandò al Fabbro la sua «dizione» a giorno di un «gesto», quale quello di Venere, di cui era bene che il Fabbro di racconti fosse stato tenuto all’oscuro.

Da allora il Racconto dice e, insieme, è condannato a disdire Se Stesso. A illudere e, insieme, a eludere il problema del «tavolino zoppo» (se è lecito chiederne in prestito la «cifra simbolica» a Mastro Ciliegia, tanto lui non la sa aggiustare)!
Dice che nel nostro occhio umano l’abbaglio che quella volta prese il Sole dura, al più, l’allucinazione di un istante. Ma che quell’istante basta e avanza a che Sâvitrî lo fulmini, l’accechi e l’abbagli una volta per sempre. Passa l’Angelo e dice amen. Dice addio alla falena!
Dice però anche: portami via da questo Fuoco, portami giù, ti prego, dalla Roccia Gialla! io sono la tua fidanzata segreta, il tepore sono delle tue ali, io sono Tapatî, la tua Musa!
Ma la falena non può quello che può l’occhio dell’uomo.
Rapire una scintilla di quel Fuoco Giallo, e darla in consegna all’orecchio di Epimeteo perché la custodisca, al riparo dalle chiacchiere in cui il Racconto è condannato a imprigionarla.

L’orecchio può sopportare il peso della gelosia. Il peso che brucia l’occhio dello spione, nonché le ali di Corvo (giusto per riprendere un altro filo del labirinto), l’orecchio stolto di Epimeteo lo può perfino sollevare, fino ad innalzare un Tempio nell’Udito.
L’orecchio si presta, state a sentire! – l’orecchio si presta a smorzare gli ardori, ad abbassare la fiamma, a scemare la vampa che perfino l’occhio del Sole non ce la fa a sostenere.
Perfino il Sole l’ha dovuta vomitare a parole.
L’ha dovuta maledire, pur di dirla.

Dicendola, il Sole ogni giorno la manifesta e ogni giorno a mezzogiorno la bestemmia.
Manifestandola (anche se al suo modo blasfemo), il Sole ogni giorno si dà e dà a noialtri uomini la possibilità di stonarla, la gelosia che ci tramanda.
Prendendola a parole, anche se a maleparole, l’affida in custodia all’orecchio dell’uomo.
Perché l’orecchio, da buon Mastro Geppetto, fabbrichi altro che una zeppa per il tavolino zoppo! Perché nel Tempio dell’Udito quella voce di memoria, quella scheggia di legno – che so? il bisbiglio di una Fata – è la sola traccia che l’uomo ha per rintracciare la sua Tiepida Sposa.

Una maledizione?
E va bèh, meglio questa che niente!
Abbiamo un male da bonificare. Meglio che non sapere neanche da dove cominciare. Abbiamo un veleno da cui provare a estrarre il suo stesso antidoto. Similia similibus
Abbiamo da riaccordare le note stonate dal Sole allorché maledisse Venere e con lei tutto il bene che dispensa ai suoi Amanti.
Abbiamo molte cose da fare, e molte parole da correggere. Abbiamo, se è il caso, da gettarci perfino nell’Etna, sull’esempio di Empedocle.
Non basta chiederle scusa.
No, che non basta!
O Sole mio, su: confessa il tuo crimine!