È il ritornello di non so quanti racconti. Orione, il cacciatore selvaggio, muore pinzato al tallone dallo Scorpione. Se pure di una morte diversa, Osiride muore il diciassettesimo giorno del mese dello Scorpione (cfr. Plutarco, Iside e Osiride, 13, 356c). Ed è sempre in prossimità dello Scorpione che Ovidio ambienta la tragica fine di Fetonte sbalzato fuori dal carro del sole.
Cambiano i personaggi, cambiano le storie, passano di bocca in bocca le tradizioni, ma ogni volta il Racconto della caduta dell’Eroe nel Paese dei morti (a partire da Gilgameš che ne è in qualche modo l’archetipo), pur se tradotto in un nuovo alfabeto e trasposto in tutt’altro contesto, ritorna punto e a capo sempre sullo stesso «luogo del delitto», lo Scorpione!
Letale è il veleno del suo pungiglione, fatale a chi la calpesta è l’«estro» della sua coda. Il Racconto narra di un «getto di luce», di un «eccesso visionario», di un’allucinazione irruenta che «investe» l’Eroe che si trova a esserne punto.
Il Racconto dice che il pungiglione, pungendolo, lo trasmoda. Dice che, mentre lo destina alla «vita breve», insieme l’«incorona» dell’aura di un destino «più lungo» dei suoi giorni sulla Terra.
Paradosso del Racconto? solo un escamotage per restare aggrappato a un’illusione? o qui c’è dell’altro, qualcosa che domande come queste non sfiorano neanche?
Restiamo ai «fatti»!
O meglio: torniamo sul «luogo del delitto», e proviamo a raccogliere altre preziose informazioni!

È sul pungiglione che dobbiamo puntare lo sguardo, perché è di là che schizza (ma sì, è a schizzi che si dona!) quell’indefinita «materia grigia» (melammu, xvarnah, xorrah e, perché no?, quel mistico nada nada) con cui il Racconto celebra ambiguamente la mortale investitura dell’Eroe a una Memoria immortale.
L’Eroe è per così dire «battezzato» con l’estrema unzione, com’è giusto che sia – dal momento che è iniziato alla sorte dei Moribondi.
Che cos’è un moribondo, se non un vagabondo nel Paese della Morte? e come potrebbe egli vagare in quest’altro mondo, come prendere tempo e strapparlo alle grinfie della Morte, se quella «dose di veleno» che lo acceca non fosse, insieme, anche la sua «dote di luce»?
Poche chiacchiere! L’argomento è frivolo: richiede solo un mordi e fuggi. Guai a ciurlare nel manico di un quia, disse il Poeta, se non per farne un quiproquo!
Il Racconto di per sé è semplice, ma è come se non potesse resistere alla tentazione di complicarsi.
Il Racconto è chiaro, ma dacché ha scoperto d’essere moribondo, s’è messo a divagare intorno al suo «punto dolente».
Perché è di dolore che qui si tratta.
Qui si tratta di quel «dolore creativo» (tu partorirai con dolore, dice il Racconto) che è la sola via, la «via bruciata» come la chiama il bizzarro autore della Picatrix, la via per cui le nostre anime, una volta «esiliate» dalla Via Lattea e precipitate lungo lo Zodiaco nel Paese della Fame e della Tenebra, hanno facoltà di fare ritorno al loro nido.
Essendo questo il diamante indistruttibile del Racconto, e forse l’unico «dato» fermo nella varietà delle tradizioni – che per andare e venire dal nostro all’altro mondo si debba passare dalle parti dello Scorpione, perché è là che è piantato il perno immutabile del Sistema da cui tutto ha inizio e in cui tutto, più o meno catastroficamente, finisce – non sarà peregrino insistervi.
Magari, non riusciremo a tirare il ragno fuori dal buco in cui il Racconto è andato a nasconderlo – ma in compenso, credo, ne sapremo qualcosa di più intorno al buco.
Anzi, a pensarci bene, ne sappiamo già qualcosa. Ci siamo infatti già aggirati nei suoi dintorni, di più: ci siamo già finiti dentro al seguito di Apollo Licio. Eh sì, quel «buco», l’abbiamo conosciuto come la Pancia Oscura di Mamma Lupa – come la Caverna dove Apollo, come ogni bambino che viene da un’allucinazione, deve essere «educato» a riconquistarsi il rango «divino» da cui è caduto.
Caduto, sarà bene ripeterlo a beneficio di quanti al solo Racconto sono devoti e a nessun catechismo: caduto dalla Via Lattea sullo Zodiaco.
Quel «buco» è il Grembo di Nonna dell’Universo, il «da dove» di tutti i viventi, l’Oriente da cui sono venuti al mondo i nostri Antenati. Di là è uscito pure il «divino» Apollo, che degli Antenati della nostra specie è l’Infante Eterno, il Guaglione che non cresce mai.
Sole del mattino, aurora della Luce dell’immaginazione, Apollo ahimé, si è invaghito di una stella che non è sulla Via Lattea. Quella stella non brilla nella Casa degli Dèi. Quella stella ahimé, per amore di un uomo, è «caduta» sulla via dei viventi, e un dio per «congiungersi» con lei dovrebbe seguirla nel Paese della Morte. Ma questo un dio non lo può, se non abdicando alla sua «divinità».
Ed eccoci al punto. È questo il «colpo di coda» con cui il pungiglione del Racconto distingue il dio dall’Eroe. Il dio, Apollo è un dio, non abdica alla sua «natura». L’Eroe invece sì, l’Eroe si dà alla Morte – per andare a risuscitare l’Amico morto.
Apollo uccide e non risuscita che i fantasmi della sua immaginazione. L’Eroe è amico di un «ucciso» e si propone di risuscitarlo.
Della «corona» [della sua Coronide] né Apollo né un altro dio sarà mai investito. Questo è poco ma sicuro. Un dio non può quello che invece può l’Eroe: farsi «benedire» da una che il dio ha «maledetta».
Scusate l’eresia. Non l’ho fatta apposta. Chiedo perdono e ritratto, se la cosa vi offende.
Mettetela così: dite che è un racconto «pagano», e lasciate perdere chi, come me, paganeggia nella vana cerca del fondamento della sua propria cristianità.
Il fatto è che Apollo, della Vergine, voleva fare la sua Sposa, ma Lei, la Vergine, era là fuori, nel mondo dei moribondi, la Vergine era nel Paese dell’«adolescenza a tempo», nel Paese dei Mutamenti, delle catastrofi e dei balocchi innocenti, dei diluvi e delle guerre più indecenti.
Il fatto è che il destino del Guaglione Eterno s’incrocia con quello di Stella, ma solo per un istante (a essere pignolo, dovrei dire: solo per una «levata eliaca»), e solo quando il sole sorge nello Scorpione!
E non potrebbe essere altrimenti, dato che nel suo pungiglione (tra Shaula e Lesath) s’annida l’estro di Stella, il veleno che intossica Venere, il miele di Lupa Famelica, il cannibalismo della Seduttrice.
È tutto là che si concentra, nel «clitoride» della Via Lattea.

La libidine di Stella è troppo forte finanche per un dio come Marte, a cui la Forza non manca: figuriamoci per un guaglione di primo pelo come Apollo!
A un debole di cuore che, là fuori, o meglio qui da noi dove si muore, non c’è venuto e mai ci verrà a cogliere il fiore dei suoi desideri, il miele di Stella rimane inattingibile. Un uomo invece sì, un uomo forte può attingerlo – se ha il melammu di Gilgameš, se come Stella di cui è figlio ha la forza di partorire con dolore le sue proprie trasformazioni (da «natura» a «cultura»).
Perché l’Eroe non è che un «dio trasformato» dal passaggio per il valico dello Scorpione.
Il Racconto si limita a chiamare «dio» chi, casto e immacolato, rimane di là e non passa la frontiera, chi alla sua «natura» rimane cocciutamente «fedele» (è il mito di Corvo, ti ricordi?), chi – a differenza di Alice o di Narciso – non si getta nello specchio delle allodole e non scende mai a nessun compromesso.
Nessun «dio» ha mai fatto la capriola, né ha mai visto il mondo messo sottosopra.
Nessun «dio» è mai impazzito per Stella, né mai s’è fatto pungere o ferire a morte, fuori della Via Lattea.