Spero prometto e giuro

Caravaggio-Bacco
Caravaggio – Bacco/Dioniso

Spero prometto e giuro che nascerò, come Dioniso, una seconda volta.
Fui Apollo – rinascerò Dioniso.
Io l’erba voglio, sempre delle voglie di un dio voglio pur io essere erede. Voglio ereditare il suo regno dei cieli.
Spero prometto e giuro che ci riuscirò.
La prossima volta.

Se sarà necessario, mi procurerò una scala di sette (note, lettere o stelle) per arrampicarmi fin lassù. Innalzerò un palazzo più alto della torre di Babele, per affacciarmi la notte alla finestra e poter parlare, un’altra volta, alle nuvole.

Nascere due volte: ma come si fa?
Ho letto dai libri che la seconda nascita si sovrascrive sulla prima: la figlia sulla madre, a immagine e somiglianza della madre, sua copia quasi conforme, suo «doppio», eco richiamo o anagramma.
Ho imparato che la «figlia» è una riscrittura del codice della Matrice, la sua «anamnesi» direbbe Platone, «riveduta e scorretta», postilla qualcuno.
Ho imparato che senza la ripetizione, il raddoppiamento e la ridondanza – c’è solo dispersione nel Caos. Non c’è linguaggio, non c’è modo di «riconoscere» in chi parla una qualche intenzione a dire qualcosa. C’è solo «rumore». C’è solo da scegliere (il Racconto non lascia che questa alternativa) tra il corvo che gracchia assetato e la gru che stride affocata.
Tra acqua e fuoco: è là che ho imparato a «riconoscere» di volta in volta e caso per caso le intenzioni del mio interlocutore.
Mi vuole bere, e come? a sorsi o tutto d’un fiato? Dici di no? dici preferisce mangiarmi? e come? cuocendomi a fuoco lento o divorandomi crudo?

Nascere la seconda volta, dev’essere più difficile della prima.
Il «secondo sé» dell’Upanisad fatica a farsi strada negli organi del Corpo che la Fame si è dato.
E tuttavia, per quanto doloroso sia il travaglio, la figlia (si raccontava una volta a Eleusi), sì la figlia (la Seconda) salva la sua Matrice dall’oblio a cui sarebbe ineluttabilmente votata, se non si riproducesse quasi identica a Se Stessa.

pandora-apre-vaso

Una «scrittura» è possibile solo a certe condizioni.
La prima delle quali, a quanto suggerisce l’Upanisad, è che la Scrittrice, cioè la Fame, deve avere un «corpo» su cui scrivere le sue intenzioni. Solo così le può sfamare, solo a condizione d’avere un «fuori» dove manifestarle (il che sottintende che, in principio, non può che ingoiarsele – più o meno come fa Saturno coi suoi «figli»: ossia senza dare loro il tempo di venire alla luce).
La Scrittrice deve «partorire» un foglio di scrittura, una prima superficie su cui incidere le sue (ultime) volontà – appena l’eco di quel poco che avanza di tutti i suoi «non scritti», di tutti gli omissis precedenti.
Solo la fine di quell’ultimo lembo d’incoscienza e di paradiso.

La figlia sarà quel foglio, e la Matrice nient’altro vi scriverà che il dolore della sua propria perdita. La Matrice si perderà di vista – come si perde di vista lo specchio, quando l’occhio è preso dall’immagine che vi si specchia.
La Matrice è la Fame: cos’altro mai potrà scrivere se non il deperibile della sua Depressione Eterna, il consumabile della sua Consumazione Infinita?
E tuttavia, scrivendole, la Matrice si procurerà una dilazione (ti dice niente Shahrazâd?). Solo un rinvio a domani. Nient’altro che un po’ di tempo. Solo il tempo di una divagazione, e poi … poi domani si vedrà.

Spero prometto e giuro vogliono l’infinito futuro. Un futuro senza fine, ecco cosa cercano di procurarsi le nostre parole. Cercano l’immortalità. La cercano quale (ultima) volontà della Morte. La Morte è Fame. E allora, ditemi: perché affrettarsi a mangiare? da dove quest’ansia a fagocitarci l’un l’altro? e da dove anche la sua forma inversa – che è quella di «non cacarci» nemmeno?
Spero prometto e giuro che non lo farò la prossima volta. Che me ne starò zitto e muto. La prossima volta, se una prossima volta ci sarà, sarò di sicuro un pesce. Magari un pescecane. E come il pescecane, non farò lo schizzinoso. No, la prossima volta divorerò senza pietà Mastro Geppetto e pure Pinocchio. Me li mangerò crudi, perché è così che mangiano gli animali!
Non perderò tutto questo tempo ad accendere il fuoco!
Non sarò più un uomo.

Perché l’uomo spunta solo alla «seconda nascita».
L’uomo nasce la prima volta animale (dio incosciente, Adamo in paradiso), e rinasce all’umanità – solo se accede al tempo del rinvio: a sua scelta, tra mille e una notte.
Perché gli animali mangiano il miele crudo. Solo gli uomini lo lasciano fermentare.
Questione di tecniche mnemoniche – aveva ragione Platone. Il mnema, il segno, è la chiave dell’Umano.

La scoperta (delle tecniche di accensione) del fuoco di per sé non significa niente. È anch’essa, in un certo senso, una Matrice. E quando questa Matrice si scrive nel Racconto Umano, gli ideogrammi che produce, tutte le lettere del suo alfabeto, le servono per piangere (pardon, per rimpiangere – se no che razza di anagramma sarebbe?) negli occhi di Demetra le lacrime per la perdita di Core. Le servono per ingannare il tempo, per eludere la sentenza di Morte.

prometeo-ruba-fuocoQuesto è quanto dice il Racconto. Dice che a rubare agli dèi il segreto del fuoco fu Prometeo, ma che il progenitore dell’umanità fu suo fratello, lo stolto Epimeteo – colui che, avendo scoperchiato il vaso di Pandora, si rassegnò a raccattarne dal fondo le briciole di spero, prometto e giuro.
Il Racconto dice che Prometeo scoprì la cottura, e che solo la vicenda parallela di suo «fratello» diede origine alla cultura.
L’uomo nasce «la seconda volta». Nasce dalla ripetizione, dalla ridondanza e dalla riproduzione (della scoperta del fuoco). La sua cultura prospera, man mano che la cottura del cibo rinsalda una «cucina condivisa».
La cultura (a cominciare dal suo senso letterale di «coltivazione», il che ci porta dritti al neolitico) si sovrascrive alla diffusione delle tecniche di accensione del fuoco. Epimeteo si scrive su Prometeo – sul suo progenitore paleolitico.