Una «sciarada» non serve che a far durare la parola, a prolungarla «oltre misura», a farla lunga il più possibile, solo per rinviare la sentenza [di morte] a cui sa d’essere condannata.
Farla lunga è fare una sciarada.
Ma proviamo a vedere se è questo il senso che il dizionario etimologico ci suggerisce!
Sta scritto: dal francese charade, che a taluno sembra non essere altro che il moderno provenzale charado o charrado = ciarlata, ossia discorso fatto per ingannare il tempo.
Registriamo per ora questa prima ipotesi: sciarada è discorso menato per le lunghe, e registrandola notiamo la contraddizione: ma la sciarada non è una formula più che sintetica, un incantesimo di parola a cui convenga anzitutto brevità?
Come fa nel breve ad accasarsi il lungo?
Lo fa a una condizione: facendosi duro e penetrando, facendosi largo in un nido di vespe, in un bosco di fragole rosse, dentro il guscio di un’ostrica o sotto la corteccia d’un albero, lo stesso Spasimante sempre in cerca di nuove avventure, sempre s’imbatte nell’enigma di Colei che è la Signora di tutte le sciarade. E che, come tra poco anche tu saprai, porta nel nome la chiave con cui vuole essere musicata.
Torniamo al dizionario. Riprendiamo da dove ci eravamo fermati: da lì dove si diceva che ciarlare è fare sciarade.
Il dizionario aggiunge che ci sarebbe una qualche parentela tra il suddetto provenzale e il dialettale francese charer (cfr. il rumeno charar, lo spagnolo e portoghese charlar) nel senso appunto di «ciarlare, dal qual significato sarebbe passato di poi a quello attuale di indovinello».
Sarai d’accordo con me: qui il dizionario è un po’ sbrigativo, confonde ciò che pure andrebbe distinto (ciarlare non è la stessa cosa che indovinare, se non là dove l’arte della sfinge sia stata già ridotta a puro passatempo).
In ogni caso rimane la domanda: se ciarlare è «parlare a lungo», senza mai farla finita, perché mai la sua formula è così breve e sintetica?
Chi propone un indovinello, fa forse un discorso lungo? Non si limita a suggerire due o tre parole soltanto? e allora: come si spiegherebbe questo voler chiamare il breve col lungo, e viceversa?
Asteniamoci per ora da una risposta!
Torniamo al dizionario, che a questo punto registra una seconda ipotesi: che la parola sciarada derivi dalla Linguadoca dove è uso dire «andiamo a fare sciarade (charades) presso il tal dei tali», alludendo alle chiacchiere a vanvera che si fanno (preferibilmente) a pancia piena. Come dire: andiamo a casa di Tizio a infrascarci di parole a casaccio.
Chiacchiera, passatempo, sproloquio conviviale – la sciarada sembra alludere a qualcosa del genere. Di qui poi a indovinello il passo è breve, perché, si sa, ospiti a casa d’un Ospite si va, magari portando un bel fiasco di vino!
Oh sì, stasera ce la spasseremo. Passeremo tutta la notte a fare sciarade.
Non lo so, ho l’impressione che anche in questa seconda ipotesi si stia eludendo proprio ciò che di più intrigante si annida nel problema.
Stavamo facendo sciarade l’altra sera, quando tu d’un tratto – stavamo parlando di non so che, dicesti: scia rada, come da esempio l’esemplare nominando! Ma avevi anche detto, un’altra sera, un’altra cosa senza sapere che sempre di sciarada tu parlavi.
E tanto meno lo sapevo io. Come potevo saperlo io che di sciarade non fui, e tuttora non sono, che un novizio qualunque, e neanche tanto promettente?
E già, qualunque cosa dici «a casa dell’Ospite» dopo aver mangiato e bevuto, è una sciarada! Almeno così starebbero le cose in Linguadoca.
Se parli a pancia piena, nient’altro lasci che rade scie – echi brevi di chissà quanto lunghi «non detti».
Ma detto fra di noi, a me questa storia che qualunque cosa detta tra ubriachi sazi – fosse anche la più banale delle banalità – rientri a giusto titolo sotto la voce «sciarada», non mi convince.
Bisogna, se ho ben capito, che quella cosa sia fatta per essere «indovinata»!
A conclusione, il dizionario postilla altre eventualità etimologiche. Così, dall’antico francese charaute, charaude (incantesimo), che evoca il basso latino characta, «onde il senso di cosa avvolta nell’oscurità, enigma».
Solo nel ‘700 si diffuse l’uso di sciarada per «indicare una sorta d’enigma in cui la parola che si dà a indovinare è divisa in due o più parole, che si appellano primo, secondo e ultimo e si fan conoscere per le loro definizioni; e la parola da indovinare si chiama intero».
Come vedi, nessun riferimento alla tua «scia rada», ma nemmeno all’altro tuo (inconsapevole) suggerimento.
Dicesti (ti ricordi?): Le mille e una notte, e poi raccontasti di quel racconto del tesoro avvistato e promesso in sogno.
Allora, fermiamoci e facciamoci questa sciarada!

La storia delle storie è, lo ricordavi proprio tu, la storia di una fanciulla dal fascinoso nome iraniano: Shahrazâd. Tu lo dicevi, e io pensavo già alla Psiche del racconto di Apuleio: l’avventura dell’Anima nel tempo essendo la recita a soggetto di tutti quei racconti, la cui protagonista è una certa bambina che si è smarrita nel bosco. Un’altra Cappuccetto Rosso.
Dovremmo chiedere a un iraniano cosa significa il nome di Shahrazâd. Per ora accontentiamoci della sua assonanza con la nostra sciarada.
Vuoi vedere che, indovina indovinello, la chiave a cui il Menestrello affidò il segreto delle affinità musicali dalla Persia alla Linguadoca, ce l’avevi proprio tu in mano, senza saperlo?
Che cosa vuole, insomma, questa Shahrazâd?
Vuole durare, tirare per le lunghe il suo racconto, sperdersi, dividersi in mille rivoli, in primo secondo eccetera fino all’ultimo frammento, al solo scopo di rinviare l’esecuzione della sentenza (di morte) che pende sul suo capo: ecco cosa vuole Shahrazâd!
Il suo modo di parlare, di fare appunto «sciarade», in questo consiste: per le lunghe a spasso portare la curiosità del Re, mai appagandola, sempre insoddisfatta lasciandola. Sempre a domani notte rinviandola.
Se la parola di Shahrazâd definisse, perciò stesso darebbe una fine a se stessa. Essa deve essere piuttosto nel segno dell’imperfetto, del non chiuso, del «non finito» di Michelangelo.
Lo so: qui è difficile farmi seguire! Eppure ci provo.
Raccontare, raccontare e solo e sempre raccontare, affidandosi a chi ascolta come a chi possiede la chiave della sua vita: è così che Shahrazâd trama le sue sciarade.
Tu, Re, a me hai decretato sentenza di morte, e la tua sentenza è Fato per la mia anima: io devo morire. Ma una possibilità mi concedesti: di spostare più in là il tempo dell’esecuzione.
Per l’anima, per la bambina smarrita nella selva oscura, il tempo non è altro che il «quanto manca alla fine» scandito dal maglio del Grande Fabbro, ritmato enigma della Sfinge, che nessun Edipo saprà mai sciogliere.
Tu l’hai detto: parlare simulando la canzone che rinvii la morte del Menestrello a chissà quando, questo è «fare una sciarada». Tu scioglimi questo indovinello, e io come premio te ne proporrò un secondo, e poi un terzo e così fino a quando nel «manco» sarà riempita la paura.
Al Fato rispondendo con una favola: alla sentenza di Morte opponendo la favola dell’immortalità dell’anima.
Un’opposizione non semplice, ma complice: perché fino alla fine la favola si nutrirà dei ritagli avanzati alla stoffa del Fato.
E mentre il Re in sordina ripete: ricordati che devi morire, la cantilena di Shahrazâd rinnova la pena di Giulietta e Romeo.
Avrà cantato l’allodola o l’usignolo? Sarà l’alba o il tramonto?
Quando il sogno finisce, come si fa a farlo durare?
Romeo dovrebbe andare: la realtà l’attende!
Ma Romeo nelle braccia di Giulietta indugia, secondo come Shahrazâd anche a lui insegnò. Lo contò dal numero dei baci il tempo che alla fine mancava, per far combaciare l’Appello con la Risposta si abbandonò ancora un’ora al tepore del corpo dell’Amata. E dalla sua bocca ancora un’ora ascoltò la canzone antica del Menestrello.
La canzone cantava d’un amore senza fine, e nell’infinito della sua durata Romeo discese. Fu un’ora, ma fu tutta la sua vita.
Non ebbe scampo: si dovette addormentare per non essere più smentito.