VITRIOL
(Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultum Lapidem)
A quanti sono prigionieri della caverna Platone consiglia di affrettarsi alla Luce. Di non lasciarsi ingannare dalle Ombre, di non farsi cioè sedurre dalle «cose», dalle cose che nella Caverna ci sembrano «reali», ma che della Realtà non sono che finzioni, copie e riproduzioni – perché quand’anche queste fossero perfettamente riuscite, non sarebbero comunque niente di «ciò che realmente è» (όντως όν).
Esci dalla Caverna! – dice Platone al suo «discepolo».
Gli dice: Vieni via di là, se vuoi imboccare la «retta via» della conoscenza! Se vuoi conoscere le Idee, non farti abbindolare dalle loro Ombre! Sta’ attento a non farti «divorare» dall’Orco delle Tenebre!
Non vogliamo metterci a fare le pulci alla filosofia platonica. Però, come far finta di non vedere che la sua «prospettiva» è totalmente ribaltata nella messinscena virgiliana del sesto dell’Eneide?
Enea, facci caso!, nella caverna ci entra di proposito. Ne è «fuori», e lui che fa? – ci «casca» dentro! Potrebbe tirare dritto per la sua strada, e lui invece devia, lascia il sentiero della «conoscenza a giorno», per andare a bussare alla porta della Sibilla, per andare cioè a mendicare un po’ di conoscenza «oscura» alla Signora della Caverna!
Qualcuno giustamente obietterà che si tratta in ogni caso di una differenza superficiale e che, malgrado la prospettiva in cui è inquadrato sia in un caso alla dritta e nell’altro alla rovescia, il simbolo della caverna funge in entrambi da «luogo di passaggio», da luogo cioè in cui ambientare l’ultimo avanzo di un antico «rito di passaggio» o di «iniziazione».
Giustamente qualcuno osserverà che tanto in Platone quanto in Virgilio, a dispetto delle variabili personali, è comunque all’opera una stessa dialettica dell’«interno/esterno». Chi è dentro la caverna, è infatti in entrambi ostaggio dei fantasmi che la popolano, mentre chi ne è fuori, sta al riparo di una Città (Atene, la polis attica, nel caso di Platone – la città futura, la Roma che un erede di Enea costruirà, nel caso di Virgilio).
E tuttavia – quella differenza di superficie rimane. Metterla a tacere, ignorarla, far finta di non vederla, è riservarle il trattamento che Platone consiglia per le Ombre: non ti curar di lor, ma guarda e passa!
È, insomma, come darla vinta al filosofo greco, senza neanche giocarla – questa partita col poeta italico.
Ma – mi domando – il «superficiale» non è alla luce del giorno? non è fuori dalla caverna che lo s’incontra? e non è proprio «in superficie» che Platone richiama i «cavernicoli»? e allora perché non metterla a fuoco questa «differenza superficiale»?

Detta in poche parole, la differenza è questa: la Sibilla non guida Enea subito alla Luce, non lo conduce alle porte di una Città (di una Lingua, di una Cultura) già fondata (com’era Atene per Platone), ma lo guida ancora più a fondo nelle «viscere» della Terra: come dire «dentro il dentro», per trovarci il capo del filo seguendo il quale, solo così, Enea potrà fare di sé il fondamento primo di una discendenza destinata a fondare Roma.
È una differenza non da poco. Una differenza che è possibile rendere su una scala «temporale».
Atene già fondata «educa» il παίς: letteralmente lo «guida fuori dalla» cecità della caverna (dalla pazzia in cui è recluso finché parla solo il linguaggio immaginario, solo la lingua privata delle sue «figure» visionarie) alla luce delle «verità» cittadine (ovvero al linguaggio simbolico che le rende possibili, e insieme al «patto di convivenza» della cui Sintassi la Legge della polis offre Se Stessa quale garante del senso proprio di tutte le «figure» in circolazione).
Roma ancora di là dall’essere fondata, di più: perché la futura Roma abbia la possibilità di un fondamento, il Guaglione si lascia guidare dentro la caverna, non da un «filosofo» sapiente, maestro di una scuola di Stato, bensì da una voce vagante, da una Voce senza Corpo (tale è la Sibilla cumana: come Eco, è una voce che ancora s’aggira in cerca di «materializzarsi» in un corpo: una voce che, se mai è «corpo», è però ancora «corpo senz’organi», corpo non ancora «organizzato», non ancora «organico» a un progetto di «verità»).
Platone dice: le «verità» ci sono già, sono «eterne», sono le immortali Idee di cui la Lingua della polis detiene la custodia.
Virgilio dice: per «fondare» una qualunque Città – una qualsiasi Lingua o Legge simbolica, atta a farsi garante di pubbliche e condivise «verità», bisogna andare a «visitare» di persona il luogo d’origine dei suoi miti e dei suoi racconti. Bisogna, in parole povere, risalire alla Sorgente del Racconto, di cui quei racconti non sono che rivoli dialettali.
Sappiamo di che si tratta. Si tratta di rinnovare il primo culto condiviso: il culto dei morti. Si tratta di rinnovarlo di persona, dice Virgilio. O quantomeno dice che il fondatore di un qualunque simbolo deve scendere tra i morti, deve misurare la sua lingua parlando coi morti. Deve affondare nel Passato Remoto di quella Lingua, nel Rimosso che è il «realmente» condiviso, il Problema irrisolto che funge da fondamento oscuro del Patto linguistico.
Ma come può il Problema venire in superficie, se prima non si traveste nella forma di un dilemma? Come se non nei due corni della fiamma dialettica del «doppio senso» e dell’«ambiguità simbolica»?
Nel linguaggio immaginario che i bambini parlano finché vivono al buio nella caverna, non c’è ancora scissione di senso proprio e senso figurato. Le immagini non si piegano al loro «sacrificio» su un qualunque altare. Non vogliono saperne di sottomettersi ai «castighi», con cui la Legge le richiama al senso proprio, alla «realtà dei fatti», a stare coi piedi per terra, a scendere dalle nuvole.
Bèh, provate a dirlo a un poeta della razza di Virgilio!
A modo suo, supponiamo che glielo disse il divo Augusto. Gli disse qualcosa come: fammi il favore, celebra la leggenda di Roma, fa’ che la sua fama si diffonda tra le genti, e che così affascinate le genti volentieri si assoggettino al suo Impero!
Comunque siano andate le cose, Virgilio intuì che non c’è altezza, se non là dove c’è profondità. Che le idee più sublimi nascono in una stalla. E che le più durature, sono quelle che serbano memoria delle loro bassezze e lordure originarie. Quelle che sanno ancora di caverna, di ombre e d’immaginazioni – perché sanno da dove provengono.
Provengono dal paese «animale» (lo fa dire Dante a Francesca, cfr. Inferno, 5: 88). Non sono, è vero, più il «grido animale», lo strillo e il ruggito – e tuttavia sanno di esserlo state.
Le parole sanno di essere state vagite e balbettate, prima che l’animale fattosi «grazioso e benigno» (cfr. ibidem) non le ha ingentilite fino al punto di trarne uno Stilnovo. Di portare qua fuori uno «stile che le rinnova», vestendole di umanità. Di quella «umanità» che ha continuamente bisogno di andare a rinnovarsi alla sua Fonte (al culto dei morti, appunto), per rinfrescarsi le idee.