L’inizio del gioco sibillino

Ibant obscuri sola sub nocte per umbram
perque domos Ditis vacuas et inania regna
quale per incertam lunam sub luce maligna
est iter in silvis ubi caelum condidit umbra
Iuppiter et rebus nox abstulit atra colorem
(Virgilio, Eneide 6: 268-272)

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[Enea e la Sibilla appena entrati nell’Ade]
nel buio vagavano per l’ombra della notte solitaria
e per le vuote dimore e gli evanescenti regni di Dite
come quando alla povera luce di un’incerta luna
si va per il bosco poi che d’ombra Giove ha avvolto il cielo
e la nera notte il colore alle cose ha oscurato

Enea e Sibilla - Sirani Giovanni Andrea
Sirani Giovanni Andrea – Enea e la Sibilla traghettati da Caronte

Ibant per umbram: [Enea e la Sibilla] andavano, vagavano per l’ombra: moto per luogo = passavano per l’ombra, attraversavano l’ombra, s’inoltravano fin dentro le più oscure pieghe dell’ombra, là dove l’ombra è avvolta in un’ombra ancora più oscura e si disperde nell’invisibile (Ade).
L’Ade, lo dice la parola, è il regno in cui l’occhio è impotente a «prendere informazioni»: è il luogo attraverso cui Enea può passare solo affidandosi alla guida della Sibilla, cioè di una «voce senza corpo».
L’Ade è l’invisibile del Racconto: l’invisibile nascosto dietro le parole del Racconto. Perciò l’occhio di Enea, se vuole seguire il Racconto, è costretto a rimediare alla sua impotenza, fidandosi «ciecamente» della Parola senza corpo.
Questo passare per il buio in vista di un «invisibile», questo andare a scovare (ma è possibile?) dall’«invisibile» un «non si sa ancora chi o che cosa», è quanto succede al «cercatore» che da poco si è messo in cammino e, perciò, è ancora al di qua dal saper «tematizzare» il «ciò in vista di cui» si avventura.

Se gli domandi: «cosa cerchi?», il cercatore non ti sa rispondere. Come ogni bambino, Enea cerca, ma non sa «cosa» né «dove» cercarla.
Il cercatore cerca nell’Ombra, tenta di attraversare l’Ombra, è tentato di «vedere» oltre l’Ombra. Fiducioso che l’Ombra gli nasconde il suo Tesoro di Luce.
Fiducioso della fede che ogni bambino presta al Racconto – alla Voce senza corpo che è la Madre di tutti gli incantesimi.

Dicesi «cerca» un movimento attratto da un ignoto «in vista di cui», da un «cercato» sconosciuto, da un movente oscuro, da un «fine» o «causa finale» che lo «muove verso di sé» in anticipo: prima cioè che il «mosso» sappia di che si tratta.
Ma di che si tratta?
Si tratta d’un problema: ecco cos’è la cerca, un problema che si getta in ciò che ha di fronte, che lo fronteggia pur aggirandosi ancora nell’ignoranza di ciò intorno a cui verte: in una ignoranza, però, che ha la facoltà di stupirsi e, stupita, di eccitarsi (ex-citarsi = chiamarsi fuori da se stessa, assentarsi dunque a se stessa per rispondere a una «chiamata» fortuita).
La facoltà di stupirsi è, in qualche modo, il «lumen naturale», il «genio illuminante» dell’ignorante, la sua potenza di luce, il suo poter «fare luce» a occhi chiusi: grazie allo stupore l’ignorante, anche se «si muove» al buio, focalizza punti-luce «stazionari» entro cui orientare i suoi spostamenti, da un «posto» all’altro rinviando il problema.

lucciole
Lucciole per lanterne

Ogni «punto-luce» è quello che in sanscrito si dice uno «stupa», una sorta di tempio eretto «là dove uno stupore si pianta in asso», là dove un asso spunta a sorpresa dal mazzo di carte: là dove una singolarità si radica per darsi a occhio e croce una stazione nuova sulla via crucis del problema – per sottrarsi cioè al movimento e disgiungersi dall’ignoto e dall’indeterminato, forzandosi a «stare», a trattenersi e a «stiparsi» in un movimento inverso, controcorrente: in un movimento che tende a sottrarsi, che resiste e si oppone al fluire della corrente.

Lo stupore, la sorpresa, il «chi va là?», schiude all’ignorante una via alla conoscenza: gli illumina un fronte dove s’ingaggiano duelli e mischie furibonde, lo mette di fronte a «opposti», lo spinge ad affrontare draghi e bestie feroci – finché «sfrontato» non scopre il suo primo «momento», e non innalza al rango di monumento quel suo primo «non so che» che ha tutta l’aria di essere «senza eguali», impareggiabile, estraneo e resistente a ogni sforzo di trovargli una simmetria – o, forse, simmetrico soltanto allo «stupito» Narciso, e perciò localizzabile solo come il suo «non dove» originario, come quel «nessun dove» che è simmetrico inverso a tutti i «qui e ora» rapiti al nomadismo del caso e del non-senso.

Sottraendoli al caso: è così, più o meno, che lo stupore si procura i suoi «mezzi di sussistenza»: avendoli da sempre «a portata di mano», solo se e quando si trova a scoprirsene lontano, lo «stupito» corre a inseguirli: lo stupito ha fretta di colmare la distanza dell’«incidente casuale» – questo è il problema.
Dice il filosofo: quando tutto è a portata di mano, la sorpresa non può sorgere che dalla mancanza di un «mezzo» con cui si era «già» in intimità, di un «mezzo» che era prossimo, vicino, solito e appagante, e che «qui e ora» segna un posto vuoto, un «Trono interdetto» tra una dimenticanza e l’altra.

Dice il filosofo: prima della sorpresa, lo spazio puro rimaneva nascosto: non c’erano che «mezzi», ognuno «al suo posto», e non c’erano che «posti», e ogni «posto», allora, «era pieno di dèi»: non c’era da nessuna parte il vuoto, e tanto meno il concetto di uno spazio indifferente alle «cose» che «contiene».
L’ignorante, allora, ignorava le intuizioni a priori: spaziava da un «pieno» all’altro senza avere la minima idea dello spazio, dell’«in cui» di tutti i mezzi possibili e immaginabili.
Solo là dove la mancanza ha «tagliato» col suo stupore la monotonia e la sazietà del continuo, s’è aperta per lui una breccia nel muro dell’ignoranza.