Come ebbe origine il Racconto

Vuoi sapere l’origine del Racconto? eccoti servito un racconto sull’Origine delle nostre parole!
Il racconto dice che fu una nonna a insegnare alla nipote il primo «nome».
Avendo «bruciato» un lembo di foresta, tra le ceneri ancora calde sparse i semi di tutte le parole e li coprì di terra. Una sola raccomandazione fece alla nipote: che stesse attenta a non calpestare il campo!
Ma, ahimé, appena spuntarono i primi balbettii, la nipote corse a sentirli da vicino e ci camminò sopra. Perciò tutte le parole crebbero basse e storte. Dovevano essere alberi alti fino a toccare il cielo, e invece la pianta più alta non arrivava che al ginocchio della bambina maldestra.

La nonna, quando vide lo scempio, scavò una fossa sul lato nord del campo, e accatastata della legna a sud, salì su quello che doveva essere il suo rogo e disse alla nipote: «Accendi il fuoco! È ora che io vada. E quando me ne sarò andata, raccogli le mie ceneri e spargile nel campo – se vuoi che le parole che vi spunteranno, per quanto basse e storte, abbiano ancora una stella a cui orientarsi».
La nipote, sia pure a malincuore, appiccò il fuoco al rogo e, raccolte le ceneri della nonna, non le disseminò per il campo, come la nonna aveva suggerito, ma le seppellì tutte quante in una sola tomba – perché voleva avere un posto dove andare, ogni volta che avesse avuto bisogno di rinnovare il suo «mea culpa».

Si racconta che là dove le ceneri furono sepolte, non spuntò mai una sola parola. Quel pezzo di terra divenne da allora il silenzio.
Certe notti di luna piena, però, alla nipote parve di udire, portato dal vento, un fischio all’orecchio – e in quel fischio credette di sentire l’eco della Nonna sepolta. La sentì una volta, due volte, tante volte la sentì che imparò infine a ripeterla. E più la ripeteva, più l’eco cresceva.
Ma per quanti sforzi la bambina facesse per farla stare in piedi, cresceva in profondità, quell’eco – non in altezza. Era così profonda quell’eco che, per continuare a sentirla, la bambina dovette scavare un pozzo nel suo orecchio.
Passò il tempo, la bambina crebbe e mise al mondo due gemelli. E quando questi furono grandi abbastanza, comandò loro d’essere sepolta dentro a quel pozzo.
E si raccomandò che montassero la guardia a quel pozzo, l’uno la notte e l’altro il giorno, perché nessuno osasse anche solo farsi sfiorare dal ricordo dell’eco di sua nonna.
Nessuno – disse – eccetto quel moscerino dell’uva selvatica che, all’equinozio d’autunno, spunta dalla più «storta» delle piante del campo.

rogo
I «datori di parola» fungono da mediatori tra natura e cultura. Lo sciamano, la sibilla, lo stregone, il vate, l’indovino e perfino la fattucchiera sono gli interpreti che, a vario titolo, si avvicendano nel ruolo di «datore di parola».
Essi, la parola, la danno penetrando in divina, tirando a indovinare il futuro di un rebus, enigma o indovinello.
La danno, da un lembo di foresta bruciata, ossia da una regione circoscritta del «continuo» dei rumori «naturali», estraendo «articolazioni» sonore. Parole e frasi che aprono vie e sentieri culturali.

Il datore di parola è il Denominatore.
Non è dio, ma da dio è delegato a dare i nomi alle cose (Adamo). Se di lui dio dice: «non è bene che sia solo», è perché bisogna che ci sia qualcuno a cui il datore dia la parola che ha da dare.
Come la nonna del racconto, pure Adamo ha bisogno di una «discendenza» a cui fare dono della sua «scienza». Non di un primo nome soltanto, ma di tutta la scienza dei nomi in una sola volta.
Una parola, infatti, da sola non basta. Ha bisogno di una «compagna» per avere un minimo di «senso». La parola ha bisogno della «frase». E la «frase», a sua volta, ha bisogno del «periodo». Ha bisogno, cioè, di fare un «giro» nel suo proprio «intorno», per avere «senso».

Perciò, chi sulle tracce è dell’«Origine della parola», come la nipotina del racconto, deve prendersi cura di tutto il «campo», dove furono gettati i primi semi della Lingua.
Se questo «campo» è tutto il Racconto Umano, nondimeno è solo un lembo della foresta: appena una regione circoscritta dei «rumori naturali».
L’Esserci, dice il filosofo, è solo quella «regione dell’essere» che si sottrae, o come ebbe a dire qualcuno, che si ribella alla dispersione naturale dei rumori e alla loro insensatezza, per fare di se stessa e del suo modo d’essere una cassa di risonanza, e dentro la cassa edificarvi una torre di babele per dare la scalata al cielo.
Un «insieme sottratto» alla totalità indeterminata dell’essere: ecco cos’è il Racconto Umano. Un sottoinsieme dell’insieme dell’Essere.
E propriamente quel sottoinsieme, il cui «esistenziale» è cooriginario allo spargimento delle ceneri del suo «linguaggio naturale».