Come la farfalla al bruco, così la Voce «succede» al Corpo che la Fame si è dato: succede che lo rovescia come un guanto e, insieme, ne rovescia la prospettiva «in modo estrinseco» (ad extra).
La Voce suona «fuori» del Corpo – e là fuori «fa le veci» (ma spesso anche le «feci») del Corpo.
Il Corpo che al suo chiassoso «vicario» si affida (il Primogenito al fratello cadetto, nonché Apollo al «fratellino» Ermes) prima o poi finisce per sentirsi «eccitato», per sentirsi letteralmente «chiamato fuori» (ex citato) dal suo stesso linguaggio.
Se la «cosa» ancora non ti è chiara, ascolta il racconto che ne fa sulla sua pelle Marsia lo Scorticato.
Ad aprire il mio corpo – dice lo sventurato – a sguainarlo e rovesciarlo su se stesso, è stato un dio, un dio crudele di nome Apollo.
Pensa! – απόλλυμι = io sono Colui che svanisce, il Sublime che va in vacanza, che si assenta – ma che nell’assentarsi, dietro di sé, lascia una traccia: lascio – dice il dio – lascio un Aperto da cui sempre fuggo via: io sono lo Spirito, l’Alcol, l’Essenza profumata, io sono l’olezzo dell’olio benedetto di paradiso: απόλλυμι – dice il dio, e perciò mentre svanisce dice pure questo: io muoio, mi spengo, sfumo, evaporo, addio! απόλλυμι (cfr. il latino ab-oleo, ossia: sono l’odore che emana dalla spremitura dell’olio, lascio dietro di me la feccia, ero un’oliva e mi sono distrutta: donde l’italiano «abolire», in cui però si è ormai perso ogni legame con «l’olio» e con la spremitura delle olive; abolire vale ormai annientare, cancellare e simili, per cui nel suo uso odierno si trova a essere abolita l’idea del profumo che sopravvive alla distruzione del Corpo, di un qualunque «corpo», sia esso reale o immaginale).
Apollo «spreme» Marsia. Il «profumo» di Marsia è la sua Voce. Apollo non fa altro che «ridurre» Marsia a ciò che la Voce di Marsia è capace di «tradurre» fuori – qua fuori, nel Paese degli Eccitati.
Hai un corpo, dacché sei qua fuori. Prima no. Prima, non ce l’avevi. Prima, tu come me, Apollo, «eri» un corpo affamato. Eri quel Lupo che ogni anno per dodici notti torni a essere. Se non altro, per non scordarti d’essere solo un animale rovesciato su Se Stesso.
Hai dunque un corpo? Ora che non «sei» più quel corpo, ma solo il suo portavoce, ora che un corpo ce l’hai – vedi se non è facile.
Basta spremerlo, e quando l’hai spremuto, l’hai di fatto consumato, abolito – e non ti resta che il suo profumo.
Tre cose furono rese degne d’onore: le donne, la spremitura del profumo dei loro corpi reali e immaginali – e la preghiera (per chi arriva fino a pregare d’essere un’altra volta ancora scorticato).
La Voce è l’anima del Corpo. L’anima è scritta sul corpo: è il suo volto, la sua pelle, la sua maschera, il suo tatuaggio.
Ma in tanto l’anima gli si sovrascrive, in quanto il corpo è già da sé capace di scrittura: solo un «corpo che scrive» può giungere a fare di «ciò che scrive» un segno equivoco con cui giungere a simboleggiare Se Stesso (cfr. il se parere di Lacan).
In tanto l’anima significa il corpo, in quanto il corpo stesso fa di Se Stesso un «segnato», ossia una superficie su cui segnare dell’altro ancora.
Il corpo è funzione di un linguaggio. Linguaggio che è sostanza solo là dove (lo dice la parola stessa) sottostà a una lingua. C’è del linguaggio, sempre, in fondo a ogni lingua. C’è sempre del corpo sotto ogni anima.
La farfalla è l’anagramma del bruco.
Il bruco, l’anagrammato, è il passato della farfalla. Il suo «sottoscritto» remoto e rimosso, il morto e sepolto.
Il linguaggio del bruco ha la forza di «materializzare» una farfalla. Ha cioè la capacità di scriversi addosso, di registrarsi in una memoria – prima ancora di giungere a parlare una lingua. Una lingua, anzi, è possibile solo là dove c’è già una memoria in atto. Una memoria senza nomi e senza concetti. Ovvero un linguaggio di corpo senz’organi, di corpo non ancora ridotto a organo al servizio di un’anima.
La farfalla parla la lingua sovrascritta al linguaggio del bruco: la farfalla è la riscrittura di un già scritto su se stesso – l’edizione riveduta e scorretta di una vecchia iscrizione.
La farfalla si scrive nello spazio del bruco sul bruco stesso. La farfalla vive sul «tempo morto» del bruco. Il suo presente, la farfalla lo scrive su ciò che ha messo al passato. La farfalla ci passa sopra – in modo estrinseco, dovrebbe dire qui il filosofo. Ogni volta che ci passa, è una mano di scrittura passata sull’altra. Vernice fresca, e nient’altro!
Le sue ascisse e ordinate linguistiche, la farfalla le porta scritte sulle sue ali: sono i trucchi e gli inganni «superficiali» delle «forme vuote» a cui il bruco sottostà.
L’anima del bruco, la farfalla, è scritta sopra la faccia o, se vuoi, alla faccia del bruco.
L’anima toglie la parola al corpo! Ecco tutto! La estrae dal linguaggio del corpo. In modo estrinseco: ad extra.
Il tempo è il senso di questa estrazione d’essere dall’essere stesso del linguaggio. Di questo venire a galla, di questo disporsi fuori dal mondo, fino a darsi da verme le ali. Di questa che gli antichi chiamavano la vis activa superficialis. La forza che agisce in superficie, a pelo d’acqua, sugli specchi, negli sguardi a prima vista, nei colpi di fulmine, nelle allucinazioni.
È essa, forse, l’Esteriore – la forza che spinge una certa dimenticanza a darsi la più facile delle «memorie», quella che si fonda sull’Evidente.
In ogni caso, è la Forza che alimenta la nostra immaginazione – che la nutre di Immagini. È la Nutrice del nostro linguaggio immaginario. La nostra Datrix Formarum. È essa a stregarci dinanzi allo specchio del mondo. È sempre essa a indurci a quel modo estrinseco (o estatico) d’essere che è il nostro proprio modo umano, il modo d’essere «aboliti» dal nostro corpo, in modo da poterlo usare come segno: vedi Platone. Come segno doppio. Segno presente e tomba del passato. Doppiando un segno già dato. Riscrivendolo su se stesso: anagrammandolo. Farfalla su bruco.
Non importa tanto sapere «che cosa» viene in superficie, a galla o sulla pelle, se cioè la Farfalla, data la sua evidente volatilità, abbia o meno diritto a essere tenuta nel conto di «cosa», ma quale destino l’attende una volta che svolazza nei campi del Discorso Umano.
Dovremmo chiederci semmai quale trattamento è riservato, quale accoglienza è data a un povero cristo la notte di natale.
La Farfalla balbetta a stento un linguaggio animale. La Farfalla parla appena un linguaggio immaginario. La sola differenza con gli altri animali, è che il suo linguaggio ha finito per estrarla dal guscio della sua vecchia forma, per spingerla a un’esistenza «fuori di sé».

Marsia non era che Voce della Fame. La Fame, però, s’è mangiato pure lui. Di Marsia adesso non resta che un «canto».
Solo un angolo rimane, in tutto il mondo, dove si radunano tutte le voci dei morti. Non è più grande di una capocchia di spillo, in superficie.
È profondo. Più che profondo, è senza fondo.
Ma in superficie non è più grande della punta di un chiodo.
Un chiodo fisso.
Chissà, forse non c’è né tempo né spazio. Forse non c’è che del linguaggio al mondo. Forse, il mondo non è che linguaggio.
Un mondo, un linguaggio, un solo annuncio d’un solo essere una sola volta «esploso» in infinite stringhe. Forse, il linguaggio è la sostanza di cui è fatto ogni mondo. E l’inconscio di questo linguaggio, forse, non è niente – non ancora – di «psichico». Forse è Natura = Industria, Natura che produce «codici genetici» per le congiunzioni e le disgiunzioni di ciò che «genera».
Ma chi può dirlo, senza pentirsene subito dopo?