Possesso e proprietà

Non puoi trovarmi, se non mi hai perduta – dice la Voce della foresta.
Dice che ora siamo forestieri – e che ci alimentiamo di cultura. E tuttavia quella Voce ancora ulula – ancora ci richiama alla Tana del Lupo.
Che dici? – almeno dodici notti all’anno, non sarà il caso di tornarci?

Il miele d’una volta, era un mondo posseduto nella sua incoscienza, immerso nel suo possesso di miele. Un mondo annegato nell’abbondanza di miele. Un mondo che non sapeva di sapere di miele – perché «era» tutto miele.
Era miele «naturale»: era il latte della Lupa. Il seno di ogni mamma ce l’ha in dote: non lo «produce», ma lo «possiede» per natura.
Ha dunque ragione Hegel a dire che la prima «relazione giuridica» concerne il possesso. Il possesso non è ancora «proprietà privata», e tuttavia ne è la condizione. Bisogna che intervenga una «privazione», egli dice, perché dall’uno si passi all’altra.
Il possesso è ai confini tra natura e cultura. Solo dove c’è del «posseduto» si può poi accusare una privazione, una perdita, un manco.
Il possesso [naturale] dev’essere perduto per essere ritrovato, e in qualche modo risarcito, nella forma giuridica [culturale] di proprietà privata.

foresta1Il linguaggio umano è stato portato via (trattasi di «furto» a tutti gli effetti) dai rumori e gli echi confusi della Foresta. È stato strappato dall’essere quel «grido animale» che sarebbe stato, se il miele inconscio della Metafora non l’avesse sedotto con le sue «figure». Se non l’avesse convinto ad «abbassare» la voce. A piegarsi al raptus del suo Fascino, della sua Dominazione.
Ma se è la Metafora a «rapire» la scienza degli alfabeti dagli abissi del Caos, per farne la materia prima delle lingue umane, e se la Metafora stessa in tanto seduce e rapisce, in quanto offre uno scambio coi «suoi» doni – è più che lecito, direi doveroso, chiedersi: ma che cosa la Metafora ci dona, una volta che ce la lasciamo entrare nelle orecchie e addirittura parlare in bocca?

Ci dona l’Arte di scrivere (e di leggere) sulla cera. Di scriverci nostalgia del rimosso, e di leggere da questa nostalgia quel poco di sapore di miele che avanza – che poi è tutto quanto la Metafora spera promette e giura di donare a chi da Lei si lascia sedurre.
Letteralmente: prendere in giro.
Fare girotondi, fino a farsi venire le vertigini.
Gli adulti lo sconsigliano, ma vallo a dire ai bambini!

Il mondo sommerso in fondo al mare dell’oblio, grazie all’Arte, riaffiora. Torna alla memoria. Torna e fa memoria. Ripassa a memoria sul miele che fu, e sul vuoto segnato dalla sua perdita scrive il valore del miele, il segno miele come valore del [mondo] perduto. E così sovrascrive questo miele che vale a quell’altro miele, al miele insignificante di una volta, a quando c’era così tanto miele che il miele non valeva niente.
Perché il miele comincia a significare, comincia a valere solo dal momento in cui la cera ne accusa la mancanza, e questa mancanza [questa non-costellazione] dalla cera è sentita come la Matrice della sua costituzione. È il venir meno del miele alla sua «indifferenza» a fare grumi di cera umana: perché l’Umano è là dove la cera si differenzia dal miele, e di questa differenza fa il suo marchio di fabbrica, il sigillo impresso sulla «materia brillante» della sua nostalgia.
Sentirsi differenti – è sentirsi differiti nel tempo, rinviati a un avvenire, a un dopo, rimandati a succedere a una Storia, a un Racconto, a una Memoria, per poter in questo modo valere qualcosa, e valere per significare poi che cosa, se non la propria originaria insignificanza?

dervisciEra più o meno questo il girotondo – uno dei tanti girotondi con cui a Eleusi si passava il tempo. I «novizi» dovevano, secondo il rituale, danzare la loro «fuga» dalla Foresta, gettandosi (ma forse qui è proprio il caso di dire: progettandosi) nei conti e nei racconti ascoltati.
Girando più e più volte intorno a quei conti e racconti, i «novizi» venivano iniziati alla loro «prima morte»: alla Morte [del loro linguaggio animale] nella luce di una nuova aurora consurgens – quella del Simbolo, quella del loro Avvento nella Parola Umana, nei «Si dice» di un popolo, di una Gente.

È cambiato il rituale, ma le cose stanno ancora così. I bambini devono diventare «gentili». Basta coi «modi» della Foresta! È l’ora che il bambini vengano in Città. Un labirinto li attende, una notte li avvolge, un pungiglione li punge. È l’ora dello Scorpione! Ogni bambino deve prendere la sua «via» fuori dalla Via Lattea! deve arrangiarsi a cercare altrove la sua «datrice di miele»! perché, lo sappia o non lo sappia, un’altra via gli è «aperta»: una via lastricata di chiacchiere, novantanove su cento «a vuoto».
Novantanove pecore fanno un ovile «pieno di dèi». C’è sempre e solo una pecorella smarrita nella casella vuota della Parola.
Anche se è afflitta e si danna l’anima per la nostalgia di casa, essa non può tuttavia sottrarsi al «gesto» a cui la Metafora la vincola – lo stesso che la Fata Turchina impone a Pinocchio perché diventi «uomo». Perché parli umano, deve obbligarsi alla Sintassi della sua Gente! E questo, la pecorella smarrita, non lo sopporta.
Il bambino deve essere «gentile»! ma così gentile che, sulla via che lo conduce alle lingue umane, ovunque in principio egli si trovi, si lasci «porre» nel mezzo di un cammino, a metà strada, dimezzato lui stesso dal confine che si trova a passare.
Segato in due – tra linguaggio immaginario e patto simbolico.

I lupi che, quando hanno fame, s’attaccano al seno della Nutrice e succhiano e prelevano e consumano le immagini della loro Immaginatrice (la Datrice di forme vuote), devono togliersi il «vizio» di possedere, tutto per sé, il miele di quelle immagini seducenti. Il miele dei loro fantasmi privati, essi devono imparare a scambiarlo!
Perciò bisogna che essi, quel miele, lo perdano. Altrimenti restano lupi. Solo i lupi non sentono il richiamo del rimosso. O, se lo sentono, non sentono la differenza. Non danno valore a ciò che il Tempo «dice». Non danno valore al Tempo. Per i lupi, il tempo non è denaro.

«Il valore della merce è distinto dalla merce stessa», scrive Marx. E noi, parafrasando lui, diciamo: il valore del miele è distinto dal miele stesso. Un valore, il miele l’acquisisce solo a partire da quando la sua appetibilità è «posta» nella bocca di chi non lo possiede e ne sente la privazione, di chi ora è costretto ad aprire una trattativa sociale, una relazione col suo possessore per «riaverlo».
Il miele che il Lupo possiede non vale, finché qualcuno non glielo ruba. Ciò che Marx dice del valore di scambio, e cioè che esso sia oggi fondato sulla «produzione», non vale però per i tempi del racconto Opaié.
Il racconto ci porta più indietro nel tempo: ci riporta a un «possesso senza produzione», e di qui ripercorre la via che da questo originario «possesso improduttivo» conduce infine alla «produzione» di miele. Dalla casa del Lupo [il Lupo non produce miele, ma lo possiede] alla fabbrica delle Api [le Api producono miele del cui possesso però non godono]. Il Lupo è un possessore improduttivo, le Api sono invece continuamente spossessate del loro prodotto.

Il miele è, dunque, ciò che il Lupo una volta possedeva senza produrlo, e che ora le Api producono senza possederlo. Esso ora è miele che vale, in quanto è finalmente un miele socialmente commestibile, su cui però i suoi produttori non vantano nessun diritto di proprietà: ogni animale può farne un prelievo e andarselo a coltivare nel giardino di casa.
Benché la Legge insista a farne un «proprietario», ogni animale dovrà presto scoprire, a sue spese, che ne era solo il «possessore» provvisorio, e che questo «possesso momentaneo» faceva di lui solo un anello della «catena di furti e ruberie», di flussi e di tagli di desiderio – direbbe Deleuze – che vanno all’infinito.

Il valore del miele è il «rapporto sociale» tra possessori [disposti all’astinenza] e consumatori [che dall’astinenza vogliono uscire], tra lupi che credono di essere proprietari del miele per poi rassegnarsi a cederlo ad «estranei», e mendicanti che il miele non ce l’hanno, e che al suo consumo possono avere accesso solo attraverso il dono o il furto. Il miele, dunque, vale come «bene posseduto e alienato»: vale solo a partire dalla sua «alienazione», solo dopo che, volente o nolente, il possessore accetta di cederlo [dono] o è costretto a farne a meno [furto e rapina]. Il valore è sempre sociale: niente e nessuno «vale» se non si commisura in relazione ad altro. Ma perché, oltre al valore d’uso, oltre alla sua «esistenza naturale», il miele acquisti un secondo valore, è necessario un «rapporto sociale»: un rapporto che diciamo economico, ma solo perché è l’economia ad averlo fatto fruttare in tutta la sua evidenza. Un rapporto più antico del baratto e dello scambio di merci. Un rapporto intorno al possesso.

alveareLa storia recente comincia dall’Alveare – dalla fabbrica, dalla produzione. Ma sottintende una preistoria la cui economia ignorava ancora lo scambio di «prodotti [di lavoro umano]», e ovviamente una loro astratta equivalenza.
E tuttavia «l’astrazione» era già in cammino, già per via: bastavano il Lupo e la Tartaruga, dice il racconto, per dare vita alla prima «figura giuridica», alla prima forma di relazione. Perché pure la Tartaruga abbia accesso al miele, bisogna che il miele sia sottratto, con le buone o con le cattive, al Lupo che lo possiede. Bisogna che il Lupo ne sia spossessato, perché il miele diventi un bene [dal valore] sociale. Bisogna che sia rubato alla sua naturalezza. E, se possibile, anche all’idea di «natura» di cui, fin qui, abbiamo anche fin troppo abusato.