Ovidio – La storia di Pico e Canente

Pico, figlio di Saturno, era re nelle terre d’Ausonia: la sua passione era addestrare i cavalli alla battaglia. Aveva l’aspetto che vedi: puoi da te ammirarne la bellezza e da questa immagine dipinta intuire quella vera.

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Xanto Avelli – Pico e Circe

Il suo animo era pari alla sua bellezza: ancora non era arrivato a vedere quattro di quelle gare che si tengono ogni quattro anni nell’Elide greca, e già incantava col suo volto le Driadi nate tra i monti del Lazio, e faceva innamorare le dèe delle fonti, le Naiadi […]
Ma lui, tutte le rifiuta e corteggia una sola, una ninfa di cui si dice che Venilia, sul Palatino, un giorno la partorì all’innocente Giano. Appena fu in età da marito, andò sposa al laurentino Pico, prescelto fra tutti. Era di rara bellezza, ma ancor più rara era l’arte con cui cantava, donde fu detta Canente: era capace col suo canto di animare le pietre e i boschi, di ammansire le bestie feroci, di fermare i fiumi in piena e di trattenere gli uccelli errabondi.

Un giorno, mentre Canente cantava con la sua voce di donna, Pico era uscito di casa diretto ai campi laurentini a caccia di cinghiali di zona, in groppa a un focoso cavallo: impugnava due giavellotti nella sinistra e indossava un mantello di porpora fermato in alto da una borchia di fulvo oro.
In quelle stesse selve era venuta anche la figlia del Sole, lasciando il paese che dal suo nome è detto Circeo, per raccogliere nuove erbe sulle fertili alture: appena da dietro un cespuglio vide il giovane, ne rimase affascinata; le caddero di mano le erbe che aveva raccolto e un fuoco le parve avvampare per tutto il corpo.
Appena si riprese da quella vampata, il primo pensiero fu di dichiarare il suo desiderio, ma non poté avvicinarsi perché il cavallo correva al galoppo e c’era tanta gente al seguito.
«No, non mi sfuggirai – disse – anche se il vento dovesse rapirti: se mi conosco bene, e se non è tutta svanita la virtù delle erbe e dei miei incantesimi».

cinghialeCosì disse, e fece apparire la figura incorporea d’un falso cinghiale, e gli ordinò di passare di corsa davanti agli occhi del re fingendo d’andare a rintanarsi nel folto del bosco, là dove la vegetazione è più fitta e un cavallo non può addentrarsi.
E subito Pico, ignaro, si getta all’inseguimento della preda immaginaria e in tutta fretta smonta dal cavallo schiumante: rincorrendo una vana speranza, si avventura a piedi nel profondo del bosco.
Circe si mette a recitare preghiere e pronuncia parole di sortilegi evocando ignoti numi con un’ignota formula magica con cui è solita annebbiare la bianca faccia della Luna e stendere una coltre di vapori davanti al viso paterno. E anche stavolta, sotto l’incantesimo di quella formula il cielo si oscura e la terra esala nebbia, i compagni si perdono per ciechi sentieri, e il re è solo.
Trovato il luogo e il momento adatto: «Per i tuoi occhi – disse – oh, per questi occhi che hanno ammaliato i miei, e per la tua bellezza, bellissimo, che mi riduce a supplicarti, pur essendo una dea, calma questo mio fuoco e accetta come suocero il Sole che tutto vede, non essere duro, non disprezzare Circe, la figlia del Titano!».

Circe-e-PicoCosì disse, ma lui fiero respinse lei e le sue profferte, e rispose: «Chiunque tu sia, non sono tuo. Già sono schiavo di un’altra, e prego il cielo di restarlo per lungo tempo ancora! né violerò per un altro amore il patto coniugale, finché il destino mi concederà Canente, figlia di Giano».
Più volte invano avendolo pregato, Circe esclamò: «Non resterai impunito, né più tornerai da Canente! Imparerai che può fare una donna offesa, una donna innamorata, e Circe è innamorata, offesa e donna!». E si girò due volte a occidente, due volte a oriente, tre volte toccò il giovane con la bacchetta, tre volte recitò una formula.
Lui fugge, ma si meraviglia con se stesso di correre più veloce del solito; vede spuntargli piume sul corpo e, sdegnato di dover abitare, novello uccello, le selve del Lazio, col duro becco picchia le querce selvatiche e stizzito infligge ferite ai lunghi rami. Le penne assumono il colore purpureo del mantello, finanche la fibbia d’oro che prima mordeva la veste, diventa una piuma; il collo s’inanella di giallo, e di prima niente gli resta se non il nome: Pico.

Intanto i compagni, che invano s’erano sgolati a chiamare Pico per i campi senza trovarlo da nessuna parte, scoprirono Circe (che già aveva fatto diradare la foschia, lasciando squarciare le nebbie dai venti e dal Sole), la investirono con giuste accuse e reclamarono il re con violenza, pronti ad assalirla con le armi spietate.
La colpevole sprizzò veleni e succhi malefici, dall’Erebo e dal Caos chiamando a raccolta la Notte e gli dèi della Notte, e con lunghi ululati invocò Ecate: i boschi (incredibile a dirsi) saltarono su dal loro posto, il suolo gemette, gli alberi vicini impallidirono, i pascoli spruzzati s’imperlarono di gocce di sangue, si udirono le pietre mandare sordi muggiti e i cani latrare, e si vide la terra brulicare di neri serpenti e nell’aria volteggiare le ombre sottili di anime silenti.
A quei prodigi, attonita la compagnia si spaventò, al che lei con la bacchetta avvelenata toccò i loro volti spaventati e, a quel tocco, prodigiosamente i giovani si tramutarono in bestie d’ogni specie. Nessuno conservò il suo aspetto.

picchio 1Febo tramontando aveva mandato gli ultimi bagliori sulle spiagge di Tartesso, e invano gli occhi e il cuore di Canente avevano atteso lo sposo. I servi e il popolo perlustrano tutte le selve al lume di torce. Non basta alla ninfa piangere, stracciarsi i capelli e battersi il petto; eppure fa tutto questo, ma corre anche fuori e come impazzita vaga per i campi del Lazio.
Per sei notti, e per altrettanti giorni, fu vista andare così, senza dormire e senza cibarsi, per monti e per valli, per dove il caso la menava. L’ultimo a vederla fu il Tevere che, stanca per il dolore e per il cammino, si accasciava sulla lunga riva: là afflitta, tra le lacrime, spandeva con un filo di voce parole che, pur nel dolore, avevano una melodia, come cigno morente che canta il suo funebre canto. Infine, consumata dal pianto fin nel tenue midollo, si dissolse e a poco a poco svanì nell’aria leggera.
Il suo ricordo però rimane legato a quel luogo: a ragione le antiche Camene, dal nome della ninfa, lo chiamarono Canente.

(Ovidio, Metamorfosi, 14: 320-434)