Adolf Wölfli non era quello che si dice un «artista». Non iniziò a disegnare se non dopo la reclusione in manicomio. E mai lo fece se non per «colorare» certi suoi «intervalli d’insania» troppo vuoti per non essere tentati di riempirli.
Solo sciogliendo in quel gioco cromatico i grumi di cera della sua «scrittura» selvatica, la candela di Adolf Wölfli trovava un po’ di pace.
Era affamato Adolf Wölfli. Aveva fame d’un «miele» raro, d’un «miele» a lui sconosciuto, di cui – forse tutta la vita – attese invano il dono.
O forse quel «dono» l’ebbe, ma dovette farsi «derubare» l’anima per averlo. Che dico? – dovette farla a pezzi, la sua mente, per sperare di trovarci quel solo frammento che fosse degno, niente più e niente meno, di fare l’orlo alla veste della Sconosciuta da cui lo riceveva.
Forse ebbe troppa fame Adolf Wölfli – chi lo può dire?
Sappiamo noi la misura dell’intensità di luce (di luce «nuda e cruda») che è a ciascuno la «dote» di coraggio che gli è necessaria per attraversare i simboli delle Lingue Umane?
Per attraversarli senza farsene ingoiare?
O farsene ingoiare, ma rendendosi tossici e velenosi quanto serve per essere di nuovo vomitati?
Come far «vomitare» il lupo, la balena o il drago?
Oh, sì – questa sì che è una domanda che dovette affliggere pure lui!
Una domanda che per uscirgli di bocca, aveva bisogno di tutto il coraggio di Adolf Wölfli!
E già: come si esce dal Labirinto in cui ci caccia la Parola?
Se è la Parola a trarci fuori dalla Caverna dell’infanzia, non è sempre la Parola a tenerci prigionieri dei giochi di prestigio degli adulti?
Come se ne esce?

Adolf Wölfli non conosceva che una via d’uscita: il disegno. Solo per il tempo che passava disegnando i suoi fantasmi, Adolf Wölfli «usciva» a respirare in santa pace.
Del «posto» dove il disegno lo portava, non c’è bisogno del dottore per sapere che non era neanche quella «casa sua». Era anzi quel «vuoto d’essere» della Parola, quel «manco» di dio o del mondo – che gli toccava ogni volta da capo riempire dei colori della sua nostalgia, per tenerlo vivo.
Per Adolf Wölfli non c’era, forse, altro modo per sentirsi «presente», se non quello di correre a rifugiarsi «presso» una sua antica allucinazione.