Il fanciullo divino è perlopiù un trovatello abbandonato. Egli corre spesso pericoli straordinari: di essere inghiottito come Zeus, dilaniato e fatto a pezzi come Dioniso. D’altra parte, questi pericoli non hanno nulla di sbalorditivo: essi sono inerenti all’aspetto d’un mondo titanico, ove regnano discordia e inganno. Il padre stesso è spesso il nemico, o egli è soltanto assente.
Un caso più raro si racconta nell’Inno omerico a Pan. Il piccolo Pan viene abbandonato dalla madre e dalla nutrice, terrificate. Suo padre, Ermes, lo raccoglie e, avvolgendolo in una pelle di coniglio, lo porta sull’Olimpo.
Anche in questo caso stanno di fronte due sfere di destino: nell’una il fanciullo divino è un aborto abbandonato, nell’altra egli trova posto tra gli dèi, al fianco di Zeus.
La madre ha una parte singolare: essa è e non è allo stesso tempo.
Il fanciullo Tages che ha rivelato agli Etruschi la sacra dottrina, era sorto dalla terra davanti agli occhi di un aratore: figlio della Terra madre e nello stesso tempo il più puro tipo del trovatello senza padre e senza madre.
Semele è già morta quando Dioniso viene alla luce, e neanche la madre di Asclepio [Coronide] sopravvive alla nascita di suo figlio […]
Anche di Zeus si racconta qualcosa di simile. Appena nato, sua madre lo espone – per salvarlo. Le nutrici divine e animalesche nel mito di Zeus, o l’imitazione di esse nel culto di Dioniso bambino, esprimono due cose: la solitudine del fanciullo divino e, d’altro lato, la sua familiarità col mondo primordiale.
Situazione che ha un doppio aspetto: situazione del fanciullo orfano e, nello stesso tempo, del figlio amato dagli dèi.
Un’altra variazione del tema è quella in cui la madre condivide l’abbandono e la solitudine. Essa va raminga, senza patria, e perseguitata, come Leto, madre di Apollo, o essa vive soltanto senza onore, lontana dall’Olimpo come Maia, madre di Ermes. La sua posizione – originariamente quella della Terra madre di cui essa porta uno dei nomi – nell’Inno omerico non è più del tutto semplice.
La situazione semplice si rispecchia nell’abbandono del dio neonato, nelle sue due variazioni.
Nell’una: l’abbandono della madre col bambino, come quello di Leto con Apollo nella deserta isola di Delo.
Nell’altra: la solitudine del fanciullo nel selvaggio mondo primordiale.
L’atmosfera fiabesca diventa più concreta: il motivo ci sembra quello delle favole. Ricordiamo l’orfanello delle favole popolari europee ed asiatiche, e il suo stato d’abbandono.
«Dove era, dove non era, c’era una volta una città, e nel suo quartiere meridionale c’era una casa, e in questa casa abitava un orfanello, rimasto tutto solo soletto dopo la morte del padre e della madre» – così incomincia una favola ungherese.
L’orfanello è il protagonista anche di una favola dei Tartari della Foresta Nera nell’Altai. A «nutrirlo» [in assenza della madre] è la sorella maggiore [Altyn Sabak].
La ripetuta comparsa di una simile situazione nelle favole e saghe – per quanto i citati esempi derivino da sfere lontane dall’antichità classica – potrebbe dar luogo a una domanda: non sarà forse l’orfanello della favola l’antenato del fanciullo divino? non sarà stata la mitologia a prendere in prestito questa figura, elevandola a dignità divina, dalla semplice illustrazione di un tipo di destino umano ugualmente possibile nelle più varie civiltà?
O il caso è proprio l’opposto? Che la precedenza sia del fanciullo divino, e l’orfanello della favola sia nient’altro che il suo pallido riflesso?
Che cosa è qui l’originario: la favola o il mito? Che cosa era prima: la solitudine nel mondo primordiale o la rappresentazione meramente umana della sorte degli orfani?
La domanda acquista un particolare rigore, se riflettiamo che esistono dei casi in cui semplicemente non è possibile distinguere fra il mitologema del fanciullo divino e la favola dell’orfanello.
(Kerényi, Il fanciullo divino, in Jung-Kerényi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia)