Platone – La visione di Er e il fuso di Ananke

ArmeniaEr, figlio di Armenio, di schiatta panfilia era morto in guerra e quando, dieci giorni dopo, si raccolsero i cadaveri già putrefatti, venne raccolto ancora incorrotto. Portato a casa, nel dodicesimo giorno stava per essere sepolto. Già era deposto sulla pira quando risuscitò e, risuscitato, prese a raccontare ciò che aveva visto nell’aldilà.
Ed ecco il suo racconto. Uscita dal suo corpo, l’anima aveva camminato insieme con molte altre ed erano arrivate a un luogo meraviglioso, dove si aprivano due voragini nella terra, contigue, e di fronte a queste, alte nel cielo, altre due. In mezzo sedevano dei giudici che, dopo il giudizio, invitavano i giusti a prendere la strada di destra che saliva attraverso il cielo, dopo aver loro apposto dinanzi i segni della sentenza; e gli ingiusti invece a prendere la strada di sinistra, in discesa. E anche questi avevano, ma sul dorso, i segni di tutte le loro azioni passate.
Quando si era avanzato lui, gli avevano detto che avrebbe dovuto descrivere agli uomini il mondo dell’aldilà, e che lo esortavano ad ascoltare e contemplare tutto quello che c’era in quel luogo.
E lì vedeva le anime che, dopo aver sostenuto il giudizio, se ne andavano per una delle due voragini, sia del cielo sia della terra; attraverso le altre due passavano altre anime: dall’una, sozze e polverose, quelle che risalivano dalla terra; dall’altra, monde, altre che scendevano dal cielo.
E quelle che man mano arrivavano sembravano venire come da un lungo cammino. Liete raggiungevano il prato per accamparvisi come in festosa adunanza. E tutte quelle che si conoscevano si scambiavano affettuosi saluti: quelle che provenivano dalla terra chiedevano alle altre notizie del mondo celeste, quelle che provenivano dal cielo notizie del mondo sotterraneo.
Si scambiavano i racconti, le prime gemendo e piangendo perché ricordavano tutti i vari patimenti e spettacoli che avevano avuti nel loro cammino sotterraneo (un cammino millenario), mentre le seconde narravano i godimenti celesti e le visioni di straordinaria bellezza.
Molto tempo, Glaucone, ci vorrebbe per i molti particolari, ma la sostanza del suo racconto era questa: per tutte le ingiustizie commesse e per tutte le persone offese da ciascuno, avevano pagato la pena un caso dopo l’altro, e per ciascun caso dieci volte tanto (questo avveniva ogni cento anni, perché tale è la durata della vita umana).
Ciò perché il castigo subìto fosse il decuplo della colpa: perché ad esempio, i responsabili della morte di molte persone per aver tradito città o eserciti, e coloro che molte ne avessero ridotte in schiavitù o fossero stati complici di altri misfatti, per ciascuno di tutti questi delitti riportassero sofferenze decuple; e, viceversa, perché coloro che avessero fatto dei benefici e fossero stati giusti e pii, fossero premiati nella medesima proporzione. Altro diceva dei morti subito dopo la nascita e dei vissuti breve tempo, ma sono cose che non merita ricordare.
Ancora maggiori, secondo il suo racconto, erano le mercedi per l’empietà e la pietà verso gli dèi e i genitori e per l’omicidio. Asseriva infatti di essersi appunto trovato accanto a uno cui un altro chiedeva dove fosse il grande Ardieo. Questo Ardieo era stato tiranno in una città della Panfilia, mille anni prima, e, come si diceva, aveva ucciso il vecchio padre e il fratello maggiore, e si era macchiato di molte altre nefandezze.
L’interrogato, riferiva Er, aveva risposto: «Non viene né potrebbe venire qui. Infatti tra gli altri orrendi spettacoli abbiamo veduto anche questo. Come fummo presso lo sbocco, pronti a risalire e trovandoci ad aver subìto tutte le altre prove, d’improvviso scorgemmo lui e altri, perlopiù tiranni, ma c’era anche gente privata, colpevole di gravi peccati. Essi credevano ormai che sarebbero risaliti, ma lo sbocco non li riceveva, anzi emetteva un muggito ogni volta che uno di questi scellerati inguaribili o uno che non avesse ancora espiato nella misura dovuta tentava di risalire».
Lì presso, raccontava, c’erano uomini feroci, tutti fuoco a vedersi, che sentendo quel boato afferravano gli uni a mezzo il corpo e li trascinavano via, ma ad Ardieo e ad altri avevano legato mani, piedi e testa, e li avevano gettati a terra e scorticati, e li trascinavano lungo la strada, dalla parte esterna, straziandoli su piante di aspalato.
E a coloro che man mano sopraggiungevano, spiegavano quali erano le ragioni di tutto questo aggiungendo che li conducevano via per gettarli nel Tartaro.
Laggiù, continuava, avevano provato molti terrori di ogni genere, ma tutti li superava la paura che ciascuno aveva di sentire quel boato al momento di salire. E ciascuno era stato molto contento di venire su senza sentirlo.
Queste erano all’incirca le pene e i castighi e le corrispondenti ricompense. Quando i singoli gruppi che si trovavano nel prato vi avevano trascorso sette giorni, nell’ottavo dovevano levarsi di lì e mettersi in cammino, per giungere nel quarto giorno in un luogo donde potevano scorgere, tesa dall’alto attraverso tutto il cielo e la terra, una luce diritta come una colonna, molto simile all’arcobaleno, ma più intensa e più pura.
Vi erano arrivati dopo un giorno di marcia e colà avevano veduto, in mezzo alla luce, tese dal cielo, le estremità dei suoi legami. Era questa luce a tenere avvinto il cielo e, come le gomene esterne delle triremi, a tenere insieme tutta la circonferenza.
fuso_AnankeAlle estremità era sospeso il fuso di Ananke, per il quale giravano tutte le sfere. Il suo fusto e l’uncino erano di diamante, il fusaiolo una mescolanza di diamante e di altre materie.
Il fusaiolo aveva questa natura: per la figura era come quello che si usa in questo nostro mondo, ma il racconto di Er deve far pensare che fosse costruito come se dentro un grande fusaiolo cavo e internamente intagliato fosse incastrato un altro consimile, ma più piccolo, come quei vasi che entrano esattamente l’uno nell’altro; e così un terzo, un quarto e altri quattro.
Tutti insieme i fusaioli erano otto, incastrati l’uno nell’altro, e superiormente mostravano i loro orli circolari; costituivano il dorso continuo di un unico fusaiolo accentrato sul fusto e il fusto passava da parte a parte l’ottavo fusaiolo lungo l’asse mediano.
Il primo fusaiolo, il più esterno, aveva il cerchio dell’orlo molto largo. Seguivano poi in ordine decrescente il sesto, il quarto, l’ottavo, il settimo, il quinto, il terzo, il secondo. Il cerchio del maggiore era variegato, quello del settimo lucentissimo, quello dell’ottavo riceveva il colore dal settimo che l’illuminava, quelli del secondo e del quinto si somigliavano, ma erano più gialli dei precedenti; il terzo aveva una tinta bianchissima, il quarto rossastra, il sesto veniva al secondo posto per bianchezza.
Il fuso ruotava tutto volgendosi con moto uniforme e, nel girare dell’insieme, i setti cerchi interni giravano lenti in direzione opposta. Il più rapido era l’ottavo, secondi venivano, tutti insieme, il settimo, il sesto e il quinto; terzo in questo moto rotatorio era, come appariva a quelle anime, il quarto; quarto e quinto rispettivamente il terzo e il secondo.
Il fuso si volgeva sulle ginocchia di Ananke. Sull’alto di ciascuno dei suoi cerchi stava una Sirena che, trascinata in quel movimento circolare, emetteva un’unica nota su un unico tono; e tutte e otto le note creavano un’unica armonia.
Altre tre donne sedevano in cerchio a eguali distanze, ciascuna su un trono: erano le sorelle di Ananke, le Moire, in abiti bianchi e con serti sul capo, Lachesi Cloto Atropo. E cantavano in armonia con le Sirene: Lachesi il passato, Cloto il presente, Atropo il futuro. Cloto a intervalli toccava con la destra il fuso e ne accompagnava il giro esterno, così come faceva Atropo con la sinistra per i giri interni; e Lachesi con l’una e con l’altra mano toccava ora i giri interni ora quello esterno.

(Platone, Repubblica, 10: 614b-617d)