Se c’è qualcosa che non perdoniamo al lupo, è che da sempre si rifiuta di farsi cane. Solo così si spiega l’accanimento con cui, a ogni latitudine, il Racconto Umano gli ha cucito addosso il ruolo del Malefico.
La nostra «canaglia», altro trattamento non gli può riservare, visto che il lupo è di natura restio a ogni sorta di «legame» (corda, laccio, catena o guinzaglio che sia). Il lupo non stringe alleanze: non gli passa neanche per l’anticamera del cervello l’idea di una «parola data». Il lupo non si lascia prendere né con la forza né con l’inganno. Il lupo a nessuno, neanche a un dio, giura «fedeltà» e, quando – messo alle strette dall’insistenza degli dèi – si decide a scendere a patti, lo fa solo a condizione che uno di loro, come pegno, gli metta una mano in bocca.
Perciò si dice «in bocca al lupo!». Lo si dice a chi va a «sacrificare» la propria mano. Che altro può succedere, se il lupo non si lascia ingannare? che altro, se non di vedersela amputare?
Non la forza dunque, né l’inganno, ma un «sacrificio divino», ecco ciò che occorre: una mutilazione del Soggetto divino – è quello che necessita per «imbrigliare» (e a quel punto, basta solo un filo di seta!), per tenere a bada quel diavolo di una bestia che non si sarebbe lasciata in nessun altro modo addomesticare.
È ad Apollo, al Soggetto divino, è a Lui che vanno i nostri «in bocca al lupo!» d’incoraggiamento, perché quando l’Immagine della Vergine declina dall’alto dei cieli, è a Lui che tocca passare un brutto quarto d’ora nella Tana del Lupo. È il Soggetto divino (il παίς, il guaglione) che è chiamato a immolare la sua destra, ora che, a furia di rincorrere i fantasmi della sua immaginazione, dalla Luce di colpo è piombato nel buio di una caverna – ma se vuoi, puoi anche dire: ora che si sorprende a trovarsi prigioniero della «pancia del Lupo».
Non ti dice niente Cappuccetto Rosso?
Sappiamo come finisce la favola. Passa un cacciatore, uccide il lupo, lo squarta e dalla sua pancia rispuntano, sane e salve, Cappuccetto Rosso e la Nonna. Ma resta comunque il fatto che la bambina «è dovuta» passare per la pancia della Bestia. E noi siamo curiosi di sapere cosa succede allora – non dopo, ma mentre Cappuccetto Rosso è rinchiusa in quella pancia!
Siamo curiosi di sapere cosa ci rimette ogni bambino in quella Caverna. Cosa rimette all’«educazione» (παιδεία), cosa lo «addomestica» e a quali condizioni gli è dato incatenare il suo «lupo». Com’è che in fin dei conti gli basta appena un «seta setella»? dov’è il trucco – dove la magia che tramuta la perdita in un gioco di richiami? di pure assonanze letterali?
Dodici giorni di tempo – dice il Racconto che appena dodici giorni e dodici notti furono dati ad Apollo per assentarsi da Delo (la Manifesta) e fare il grande salto nel buio. Saltare dall’Immaginario al Simbolico. Dal narcisismo privato dell’«io-tu» all’apprendimento della Regola su cui si regge la pazziella del pubblico passaparola. Saltare dalla Luce dei fantasmi infantili del «Senza Parola» all’oscura Sintassi di un’altra Lingua, di una Lingua «adulta», di una Lingua che ha già fatto i conti (e chissà quante volte!) con l’«adulterio» della Vergine, e che (altrettante volte) si è già misurata col fallimento della sua «fedeltà».
Apollo e, come lui ogni bambino, ha dunque dodici «giorni» per portare il «verso animale» di Corvo al di là della nigredo a cui è condannato dacché fu «troppo fedele» a ciò che «aveva visto», e quell’immagine non seppe più levarsela dagli occhi (e dalla voce).
La parola infantile è parola animale, e perciò nigredo, ovvero parola che non simboleggia, parola che non mente, parola che non crea, parola che non dà «essere». È parola che parla ai suoi fantasmi, le cui voci fedelmente «riporta» a chi di dovere. Al suo «Tu», al suo «doppio» immaginario. Ma sì, diciamolo: al suo «lupo». A quel Lupo che vorrebbe ancora ululare, ma che solo dodici giorni all’anno ha diritto a farlo: dodici notti per divorare il «divino» che è in ogni bambino, prima di restituirlo alla luce come Apollo Licio.
La parola è tenebra, finché non «lega» il lupo a una catena sintattica – per la qual cosa non è necessario tirare in ballo la logica dell’idem et diversum, ma basta davvero una ninnananna o una filastrocca sciocca.
È un gioco di parole, che al bambino serve per estrarre «luce» dalla semplice parola «sii!»; perché la parola «educata» questo fa: fa «essere» ciò che non è nessuna immagine. Presentifica l’«invisibile», evocandolo sonoramente.
È il suono che inocula «essere» nel vuoto dell’assenza, popolandolo di «voci» a mo’ di risarcimento.
La parola scambiata, la parola data, la parola ricevuta, la parola pattuita sulla base di una Regola: questa è tutta la «materia scolastica» della παιδεία. La si studia fino al liceo – e non a caso, visto che la parola «liceo» viene dalla stessa radice di lupo e di luce!
La scuola, dunque, è la Caverna e il Lupo! La Regola stessa è la Pancia del Lupo!
Il bambino al Lupo domanda: dov’è che abita mia nonna, la mia cara antica icona della mia più acerba immaginazione?
E il Lupo sa a quale indirizzo spedirlo. Per andare a casa della Nonna (la Vecchia dea, Madre Scorpione?) – gli dice – tu d’ora in poi passerai prima per la mia tana. Per farle assaggiare i tuoi dolcetti, tu stessa per prima dovrai farti assaggiare da me. Suvvia! Stendi il braccio! Mettimi la tua destra in bocca! Dammi metà delle tue fantasie in pegno! Ti prometto che te le restituirò finanche più perverse di quando me le hai date!