La parola per uscire dalla caverna

cavernaL’«educazione», la παιδεία, è una questione «politica». Un affare di Stato. Un problema della collettività: ne va della sua stessa convivenza.
Lo sa bene Platone: una cosa è la nostra natura «istruita» (grazie a una buona παιδεία), altra invece è quando, lasciata a se stessa (senza una παιδεία), essa si aggira (maleducata) tra i «fantasmi» della «caverna».
Senza una guida che le tracci una via per «uscire alla luce», la nostra natura ha gli «occhi» e «vede», ma non «riconosce» (o comunque tarda a riconoscere) ciò che dietro le sue «visioni» si nasconde.

Il nostro lumen naturale è esposto, dice Platone, a due specie di «pazzia», a due possibili forme di perturbazioni: sta all’«educatore» saper distinguere lo «sguardo» che viene dalla luce (di chissà quale paradiso) ed è sorpreso dal buio della caverna in cui si vede prigioniero, da quell’altro «sguardo» che invece, facendo il cammino inverso, al minimo chiarore rischia d’essere accecato per troppa luce.
C’è dunque – a detta di Platone – una pazzia «felice» che ha solo bisogno di un po’ di tempo per abituarsi all’oscurità (provvisoria) della caverna, e una pazzia «infelice», ignara della sua «infelicità» e impotente a sostenere la vista di ogni luce di coscienza.
È tra i «pazzi felici» (gli scolari il cui ciclo di παιδεία si chiude felicemente e in breve tempo) che la polis deve procurarsi i suoi «reggitori-filosofi». Degli altri, dei «pazzi infelici» (gli scolari la cui παιδεία non ha mai termine), ha solo da «avere pietà».

Poiché infatti la παιδεία dura fino all’«uscita dalla caverna», di quanti non ne escono è legittimo dire che essi sono trattenuti in una παιδεία permanente, in una «pazzia» sempre all’oscuro di Se Stessa.
Passano gli anni, ma il «pazzo» non cresce: il suo sguardo prende ancora per «reali» le Ombre proiettate sui muri della caverna. Non è pazzo per metafora, ma alla lettera, in quanto ancora necessita di una παιδεία che lo «liberi» dalle ombre dell’immaginario.
Uscire dalla caverna, uscire alla conoscenza richiede qualcos’altro, qualcosa in più dei fantasmi dell’immaginazione – perché sono, essi, le Ombre di cui ogni «pazzia» è prigioniera.
Qualcosa in più, qualcosa di diverso – ma cosa?

A scanso di equivoci, lo dico subito: per uscire dalla caverna serve la parola!
È all’incirca quello che dice lo stesso Platone, quando dice che è la «dialettica» a tirarci fuori dalla caverna.
Platone sta dicendo che è il «dialogo» a tracciare la via di uscita alla luce. Non il logos, bada bene! – ma il dialogos, lo scambio verbale, il διαλέγεσθαι.
Sta dicendo che non basta un proprio fantasma immaginario a guidarci alla luce. Bisogna che questo fantasma sia introdotto nel circolo del passaparola. Che sia incastonato nell’anello di un racconto già in circolazione, in modo da poter essere «posto» al posto che il Racconto, il διαλέγεσθαι della sua polis, gli assegna.

A Dante non basta immaginare Beatrice.
Il suo fantasma, Dante, deve farlo «parlare», se vuole esserne guidato fino alla Luce.
Per farlo «parlare», Dante al suo fantasma si fa guidare dalla parola del Racconto che ha sentito raccontare da Virgilio.
Bisogna dunque che Virgilio guidi Dante alla sua guida personale, alla sua individuale Beatrice.
Solo allora l’Immaginata infantile guiderà il Poeta fuori dall’inferno delle sue Ombre – ma a condizione che sia un Mago della Pubblica Immaginazione a guidarlo fino a Lei.

Uscire dalla caverna è uscire nella Parola Sociale a raccontarci le Ombre che ci tenevano prigionieri della nostra ignoranza a Noi Stessi.
Non è necessaria, come crede Platone, l’Arte (più o meno raffinata) di una dialettica.
Basta la parola di un racconto che ci ha «presi» da bambini.
È la parola di quel racconto che ci ha fatto «ruotare con tutta l’anima» su noi stessi, per allungare lo sguardo e avventurarci nell’invisibile.