vado cercando una morte di luce
che mi consumi
(Garcia Lorca)

È una tragedia! Come altro chiamare la sopravvivenza forzata di Apollo alla morte della sua Vergine? È tutta colpa dell’ira, è colpa della gelosia, è colpa di una oscura sete di vendetta – se qualcosa, nella luce, non si è accecato! Se dopo la Luce una scintilla di luce non si è spenta.
Qualcosa resta. L’allucinazione nell’Ora del Solstizio non si è pienamente estinta. Là, al posto della Vergine di Luce, ora «nella parola di Corvo» resiste una sua «copia» sbiadita.
Là dove Apollo ha visto la Vergine, il corvo vede Coronide – vede «soltanto» una cornacchia (κορώνη). Là, allo zenit, dove Apollo traccia al suo sguardo la «retta via» della castità e dell’innocenza, il corvo non vede altro che la brutta piega che questa innocenza prende quando, satura di Se Stessa, imbocca una strada «curva» (κορωνίς) – la via della discesa a un inferno, a un degrado, a una deiezione nel fango e nella sporcizia.
Una caduta in basso! Ecco cosa ha da enunciare al mondo la parola di Corvo Nero! sempre e comunque una «svalutazione», una «declinazione» dalla luce all’opacità. Dal chiaro allo scuro.
I bambini lo sanno. Lo sanno e ne serbano una, sia pur sempre più pallida, memoria per tutta l’adolescenza. Solo gli adulti, di questo «sapere», non vogliono più saperne niente. Se lo sono scordato apposta per procurarsi un «perduto» di cui mettersi in cerca.
Gli adulti viaggiano senza sapere quasi più niente dei posti che sapevano da bambini. Viaggiano sulla parola – avendo trovato nella parola il veicolo più confacente all’ambiguità della loro dotta ignoranza. Che sia un viaggio di sola andata, o di andata e ritorno – questo forse dipende dal biglietto acquistato in partenza, dalla potenza allucinatoria della prima parola con cui ciascuno è introdotto nel gioco simbolico del linguaggio umano.
Punto primo: la Parola di Apollo non è la parola del corvo, e la parola del corvo non è la parola dell’uomo. Ci sono tre «gradi» mitologici, tre «cieli» l’uno nelle profondità dell’altro avvolto, tre «anelli maledetti» intrufolati nel Tesoro della Parola.
La Parola di Apollo ha la «divina» potenza di produrre una disgiunzione, una rottura nella continuità inconscia – la potenza di produrre un miracolo, di esaltare l’occhio fino ad allucinarlo allo zenit di un’intuizione, di spingerlo a secernere «bianco da bianco» – nube da nube sempre nuovo e più candido candore producendo – luce intellettuale d’amore, come dice il Poeta. Luce immacolata che fa dell’occhio di Apollo il Suo specchio «vergine».
È la parola del corvo a sovrascrivere un sovrappiù a questa «verginità» – a scriverci sopra il suo «troppo», a circoscriverlo nella mappa dei suoi «valori». È essa a introdurre nel linguaggio un soverchio, quell’υπέρ per cui il corvo si macchia di ύβρις – avrebbe detto un greco.
Ultima, la parola dell’uomo, eredita dal corvo questa passione per il «di più», per l’«eccessivo», portandone ancora «oltre» l’«oltraggio» (cfr. Paradiso, 33: 57), spingendolo fino al «sublime», fino all’ύψος – alla vetta più prossima ai cieli della follia. Fino allo zenit di ogni illuminazione – ove la nigredo del Biancore è insieme (comicamente, come insegna Mastro Dante) l’albedo della Notte.
Non c’è intuizione o visione che, una volta tradotta a parole, non debba abdicare alla sua «verginità», che non debba cioè caricarsi dell’ambiguità propria di ogni parola – perché ogni parola ereditata dal corvo, presuppone una crasi di bianco e nero, una mescolanza nel Cratere (di acqua e vino, o di acqua e sale, a seconda dei gusti) delle pozioni magiche dell’inconscio.
Dietro ogni parola (e come dimostra sant’Agostino nel De magistro: tutte le parole sono «nomi») – dietro ogni nome l’inconscio trova sempre un posto dove andare a nascondere i suoi gioielli.
Dietro l’amplesso di maschio e femmina, la parola del corvo non fa altro che venire a nascondere il mito della «verginità perduta». L’atto sopra il quale parla, il foglio su cui scrive, è solo il luogo (allo stesso tempo di epifania e di occultamento) di una sua perdita, mancanza o fallimento.
La lingua fu la sua rovina: per colpa della lingua chiacchierona, il suo colore, da bianco che era, è ora il contrario del bianco (Ovidio).
Il bianco sarebbe rimasto bianco, se non avesse parlato. L’innocenza non si sarebbe macchiata d’inchiostro e mai nessuna parola, neanche la più dolce parola dello Stilnovo, l’avrebbe mai imbrattata di nostalgia.
Troppe parole sono state dette, ma chissà quante altre ancora ci sarebbero da dire a proposito di Corvo Nero e della sua tragica «fedeltà» ad Apollo.
Qui ne diremo una sola.
Diremo: Otello – Iago – Desdemona.
Anche un bambino coglie la somiglianza tra i due «casi». E credo che a volo afferra pure lo «spostamento» del nero dalle penne del corvo alla faccia di Otello.
Certo, se avessimo notizie di un Apollo Nero (cfr. απόλλυμι) … sarebbe tutta un’altra cosa!
Dice il Racconto che là, allo zenit delle Illuminazioni, nel pleroma avvistato in ogni singola Intuizione, tutto è indistintamente divino – tutto divinamente avvolto nella Nube d’incoscienza, e che non c’è il questo e il quello, nessuna distinzione, nessuna cucitura nel velo che tutto avvolge l’Innumerevole Molteplice.
Dice che l’Icona Sacrosanta della prima Epifania di Luce senz’ombra era «secrezione di bianco da bianco», di luce da luce – senza che la Luce dovesse accusare una qualche interruzione o manco da qualche parte.
Dice che non c’era distinzione di genere né di specie, di lingua o di colore. Là, a mezzogiorno in punto – mentre il sole s’imbucava nella cruna senz’ago di uno sguardo innamorato, come quello di Apollo.
È da allora, dice il Racconto, che Apollo ama la Luce. Che Apollo non ama ciò che gli è nascosto. E che perciò si lascia trascinare dal corvo nella promessa di altra luce nascosta dietro la Luce.
È la loro fedeltà reciproca che trascina tutt’e due, Apollo e Corvo (Otello e Iago), nello stesso precipizio «nero».
La fedeltà alla parola data li obbliga a inseguire quello di cui la parola parla: ovvero «quello che non c’è», e che solo la parola insiste a dire: «era qua, fino a un attimo fa».
E poiché qui – di tutta questa faccenda – noi pure ne stiamo parlando (a turno tra lettore e scrittore scambiandoci le parti di Apollo e Corvo Nero), va da sé che nessuna piega del Racconto è stata qui spiegata. E che nessuna penna di uccello grifone è stata qui ritrovata.
Abbiamo solo cominciato a smontare un racconto, abbiamo appena provato a farlo a pezzi – per vedere se qualche pezzo ci riusciva di montarlo altrove, di connetterlo ad altri fili, di intrecciarlo con altre storie.
Concediamoci dunque un paio di divagazioni – prima di tornare al tema della «loquacità» di Corvo Nero, un tempo fedelissimo portavoce d’Apollo, ma poi passato al servizio di Dioniso … {ci arriveremo mai?}