Quella che vede il corvo, non è la Vergine casta e immacolata di cui si è invaghito Apollo. La Vergine, la vede solo Apollo, e solo al Solstizio di una sua allucinazione! Il candore lo vede solo l’occhio candido. L’occhio così candido che nemmeno sa del suo candore.
Il corvo non ha gli occhi del dio, di cui pure è al servizio. E perciò al posto della Vergine di Luce, in sua vece, vede Coronide l’«adultera» che tradisce il suo dio, vede la «peccatrice» che concedendosi a un amplesso macchia per sempre la sua «innocenza», vede l’«infedele» che viene meno alla parola data all’amante. Ciò che il corvo vede «non è bene». O meglio: è quel bene «che non è più» e che, come tale, rientra nel novero delle «cose perdute».
Questione di parole. Dov’è il confine tra il bene e il male?
Di certo, esso non passa per la verginità. La verginità non ne sa nulla della verginità! Il candore ignora d’essere candido. Non vede una fine alla «luce bianca» che l’avvolge. Neanche immagina che possa segnarsi un confine, un termine alla sua «incandescenza».
Il confine tra l’innocenza e il peccato non esiste che nella parola del corvo. È la parola del corvo – la parola di un «chiacchierone», di uno che parla «troppo», e che dice più di quel che andrebbe detto – è, essa, che traccia una linea di frontiera, un distinguo, tra «verginità» e «adulterio».
È il Racconto che, traboccando dalla bocca del corvo, s’incarica di raccontare la piega, dentro la quale avvolta la Vergine «crea» futuro alla sua «verginità» perdendola. Galeotto è il Libro, criminale è il Racconto di quando la Vergine si oscura alla sua «verginità» e in sua vece «rilascia» una mezza sgualdrina che se la fa col primo venuto.
Il «crimine», lo dice la parola (dal greco κρίνω = giudicare, esaminare; cfr. il latino cernere, discernere, ecc.), è il «giudizio» che il Racconto non può fare a meno di sentenziare a proposito di ciò che racconta.
Il Racconto racconta un «atto»: maschio e femmina fanno all’amore. Il corvo non ha visto che questo. Ha visto soltanto questo. Ma quando ne parla, ci aggiunge dell’altro. All’«atto» sovrascrive un «giudizio» che lo criminalizza.
Cosa c’è di più naturale di maschio e femmina che fanno all’amore?
Eppure il corvo ci vede un tradimento, un adulterio! E vedendo questo, il corvo non vede che sono le sue parole a mettere sotto accusa l’atto di cui parlano – a vestirlo d’altro, a investirlo di una «ambivalenza» che naturaliter esso non ha. Ad aggiungervi quel «non c’è più», che fa la sostanza di tutte le nostre parole.
La parola dice sempre più dell’atto di cui parla. La parola ne viola sempre la «verginità». La costringe a piegarsi ai giochi di prestigio del linguaggio: dopo averla innalzata a «valore», poi di questo «valore» traccia una «curva», una parabola «discendente» da un più a un meno, da un su a un giù, dal buono al no buono, dal sì a un no, da un sempre a un mai più.
Il corvo non parla, il corvo non ha nulla da dire, finché il suo occhio non cade sulla vista di un «valore» svalutato. È infatti la parola del corvo a innalzare a mito la «verginità» della Luce, e a farlo solo nel momento in cui vede la perla gettata in pasto ai porci. Non c’è paradiso che l’occhio del corvo non veda che dopo averlo perduto. Solo fuori dal paradiso è possibile avere una mezza idea di paradiso.
La parola del corvo rimpiange l’Istante di Luce senz’ombra di cui è allucinata la castità amorosa di Apollo: vorrebbe che non avesse mai termine l’intensità di candida libidine divina – che nulla venisse a sporcarla.
Nientemeno!
Ma non è lui, il corvo, che una volta aveva le piume bianche e che adesso è tutto nero? non è lui lo Sporco? lui l’inchiostro che macchia la Tavola di Smeraldo? lui che ci scrive sopra le sue valutazioni, i più e i meno, i sì e i no? non è sempre lui che al fatto che ha visto aggiunge ciò che nel fatto in sé non c’è, e cioè una questione di fedeltà al dio?
Ogni parola detta o scritta o solo pensata, è un’aggiunta, una sovrascrittura d’altro sul fatto o sull’atto di cui parla. Per il semplice fatto che ne parla, l’atto di cui parla non è mai «nudo e crudo», ma sempre travestito di parole, e perciò sempre investito di un «crimine» o «distinguo».
Chi legge dunque Ovidio non solo di dritto, ma anche di rovescio, forse lui sì che intende cosa il poeta volesse dire dicendo che il corvo è «troppo» loquace. Intende, forse, che l’atto stesso del parlare, la loquacità, è essa il «sovrappiù» che la parola sempre aggiunge all’atto di cui parla. Il «peccato» non è parlare troppo, ma parlare – perché parlare è già di per sé «troppo».